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Per Aspera Ad Veritatem n.14
Intelligence e analisi strategica

Con interventi di Ilvo DIAMANTI, Efisio ESPA, Giuseppe ROMA





(*) Gli interventi di DIAMANTI, ESPA e ROMA, proposti nelle pagine seguenti, costituiscono la trascrizione di un approfondito ed articolato confronto sul tema dell'intelligence e dell'analisi strategica che ha avuto luogo presso la Scuola di Addestramento del SISDe in occasione di un corso di specializzazione per analisti.
L'attività di analisi costituisce, infatti, un momento particolarmente qualificante del processo di intelligence, che nasce dall'acquisizione, attraverso varie modalità, delle informazioni e che si sviluppa con l'analisi e la rielaborazione delle stesse al fine di delineare quadri di previsione nel breve e medio periodo.
L'analisi strategica, in particolare, consente l'elaborazione di un quadro complessivo che, coprendo un periodo di tempo più esteso e prendendo in considerazione uno spettro di elementi di valutazione più ampio rispetto ad un'analisi di tipo "tattico", tiene conto di tutte le componenti del contesto sociale, politico ed economico, al fine di individuare linee di tendenza ed elaborare strategie di contrasto alle ipotizzabili minacce.
L'essenza stessa di una simile attività richiede, pertanto, agli specialisti del settore un retroterra culturale a carattere fortemente multidisciplinare oltre ad un costante aggiornamento che necessariamente deve investire il settore economico, così come quello sociologico, politico e tecnologico.
È evidente quindi come l'incontro con studiosi di discipline diverse ma complementari costituisca un'opportunità di rilievo per gli addetti ai lavori che al contempo merita di essere portata a conoscenza anche di un pubblico più vasto.


Il mio intervento si focalizzerà sul lavoro di costruzione di uno scenario. Voi sapete che gli scenari, secondo il sistema di studio tradizionalmente adottato, vengono in qualche modo proiettati in base a modelli e tecniche di tipo matematico statistico e sapete anche che qualsiasi modello, matematico o statistico, ha bisogno di parametri e che questi possono essere riferiti soltanto alla realtà oggetto di studio.
Quindi i parametri dell'economia devono fondarsi su ipotesi economiche, i parametri che riguardano un modello, un sistema - ossia uno scenario di tipo socioeconomico - non possono che avere variabili complesse che si riferiscono alla società ed all'economia oppure ancora alla politica.
Il mio compito è quello di introdurre la tecnica degli scenari o, per essere più precisi, la tecnica di costruzione degli scenari che riguardano soprattutto il rapporto tra società, economia e politica nell'Italia del prossimo futuro: le variabili che dovremo esaminare riguardano quindi la società, l'economia e la politica. In primo luogo, ai fini della costruzione di un qualsiasi scenario, è fondamentale acquisire consapevolezza dell'importanza dei contenuti delle discipline che si vogliono esaminare e della loro opinabilità. Nel caso proposto occorre considerare che, a differenza di altri ambiti, queste tre componenti - società, economia e politica - hanno al centro un soggetto, un attore, che è l'uomo. Possiamo costruire gli scenari più perfetti, sulla base di modelli matematici ineccepibili tuttavia, se vi poniamo al centro un attore imperfetto e per fortuna imprevedibile quale è l'uomo, ci rendiamo conto che qualsiasi scenario bene o male risulta opinabile o comunque deve essere costruito con una serie di quelli che i colleghi padovani esperti di statistica chiamano "gradi di libertà", perché rimanga sempre un certo margine di oscillazione.
La prima operazione da compiere è riconoscere su quale base possono essere costruiti gli scenari, che io preferisco chiamare "previsioni", quando hanno per oggetto società, economia o politica. Un secondo passo, più specifico, è offrire un mio personale contributo alla comprensione di quanto sta avvenendo nel nostro Paese per tentare di creare un collegamento tra recente passato e presente al fine di individuare le linee di sviluppo possibili che, a detta di tutti gli analisti, dovrebbero indirizzare il prossimo futuro.
Pertanto, nel vasto ambito composto da società, economia e politica intendo isolare due temi, quello delle tensioni e quello delle fratture, che più da vicino riguardano la mia formazione professionale di sociologo, in quanto mi occupo da sempre di sociologia urbana e territoriale e di sociologia politica, nonché di metodologia della ricerca.
Allo scopo di impostare un corretto piano di comprensione analizziamo insieme una problematica storica, ma che si può considerare "esplosa" nell'ultimo decennio: il fenomeno delle fratture territoriali e delle tensioni territoriali in Italia, che si può ritenere uno dei principali problemi del nostro Paese. Al riguardo occorre mettere a raffronto le nostre ipotesi con la realtà così come si presenta, al fine di rendere possibile, in futuro, la costruzione di scenari; al contempo occorre analizzare lo stretto rapporto esistente tra società civile e sistema politico o, se vogliamo, la frattura esistente tra società civile e sistema politico.
Si tratta ancora una volta di un tema talmente vasto da essere di per sé indefinibile se considerato nella sua complessità. Per questo motivo mi concentrerò su un aspetto ovverosia sul fenomeno dell'astensionismo, come recente indicatore della frattura tra società civile e sistema politico, tenuto conto che l'astenersi dal voto è considerato il segno dell'indebolimento del rapporto fiduciario tra i cittadini e lo Stato, tra i cittadini ed il sistema.
In primo luogo cercherò di rispondere a questa domanda: in che misura è possibile formulare previsioni riguardo alla realtà sociale, economica e politica che noi osserviamo e nella quale siamo collocati e, comunque, in quale modo è possibile estrapolarne delle rappresentazioni credibili? Si tratta di un dibattito aperto da sempre, che ha investito profeti, filosofi e poi scienziati, chiamati a costruire scenari o, in chiave minore, a fare delle previsioni. Un tempo questa materia era riservata ai profeti, il cui compito era quello di annunciare il futuro, e spesso l'adesione alle loro previsioni era frutto di un atto di fede. Infatti sono proprio coloro che hanno una fede od un'ideologia, e quindi una visione sistemica dei fatti della vita e del mondo, ad investire sul futuro perché hanno la convinzione che il futuro evolverà in un certo modo. Il compito del profeta era di annunciare tutto questo e, come ci dicono anche i testi classici, essere indovini un tempo voleva dire essere portatori di una disciplina importante. Gli indovini avevano appunto la capacità di dire cosa sarebbe avvenuto, sino ad arrivare a trasformarsi in Cassandre quando le loro previsioni non avevano connotazioni positive. Con l'avvento della scienza positiva, e con l'illusione che questa fosse in grado di controllare il presente ed il futuro, sono subentrati gli scienziati, che hanno iniziato a costruire gli scenari, sostituendo quindi con le pre-visioni, ossia le visioni preventive, quelle che erano le profezie.
Non voglio svalutare il mestiere di chi costruisce scenari - come se dovessi vendere un prodotto e spiegare contemporaneamente perché non funziona - tuttavia è importante capire in che modo ed a quali condizioni funziona la tecnica ed inoltre ragionare sui motivi della sua utilità. Di conseguenza non mi occuperò tanto degli scenari quanto della capacità che effettivamente la scienza ha di fare previsioni, di costruire e proiettare immagini previsionali credibili. Al riguardo occorre chiarire subito in via preliminare, affinché sia sempre tenuto presente come fattore incontrovertibile, che nessuno può di fatto prevedere il futuro in modo preciso. Ciascuno di noi, d'altra parte, può costruire ipotesi sul futuro, basandole sulle conoscenze in suo possesso riguardo al presente ed al passato, ossia riguardo al funzionamento di un determinato sistema ovvero di determinate realtà.
Infatti solo se noi ipotizziamo l'esistenza di un sistema, di un insieme di relazioni tra parti, possiamo pensare di trasformarlo in un "futuro sistema". È inoltre evidente che occorre acquisire una conoscenza anche abbastanza precisa del sistema, tuttavia tenendo sempre presenti i problemi che nascono ogni qual volta, si tratti di scienze sociali e/o di scienze umane, l'oggetto di ricerca e di analisi è l'uomo.
Il primo aspetto da considerare è che l'uomo ha un plusvalore non prevedibile in quanto le sue reazioni e le sue capacità non sono conoscibili in anticipo, tanto che qualsiasi esperto di statistica le considererà sempre e comunque come un'incognita, cui sarà correlato un margine di variabilità. Si pensi, ad esempio, quando all'interno di una realtà sociale subentra una persona dotata di carisma personale; Max Weber, studioso e sociologo, afferma a questo proposito: "La persona carismatica, è una forza non razionale, e quindi rivoluzionaria, che apporta cambiamenti imponendo il suo carisma". Chiaramente ciò non è prevedibile da nessun modello matematico, da nessun modello statistico, neppure dal più raffinato, anche perché, in ultima analisi, il carisma può essere usato in una direzione o nel suo opposto, nel bene o nel male. Come corollario del caso proposto occorre considerare che noi possiamo auspicare il carisma ma non prevederlo e che, spesso, lo scopriamo dopo che questo si manifesta.
Il secondo aspetto che rende problematica, tuttavia non inutile, la costruzione di scenari è che gli scenari che noi proiettiamo partono dalla rappresentazione di una realtà che non è esterna a noi ma di cui noi stessi siamo parte. Si tratta naturalmente di un aspetto molto importante e, dal punto di vista metodologico, molto più importante rispetto all'altra condizione già citata.
In altre parole il fatto di non essere estranei alla realtà che osserviamo porta ad un duplice effetto, il primo dei quali è che quando noi osserviamo questa realtà, a scopo di analisi o di ricerca, al tempo stesso la cambiamo. È recente la polemica circa la proiezione sbagliata per quanto concerne le presenze a Roma in occasione della beatificazione di Padre Pio, i cui dati preconizzavano una vera e propria invasione nella Capitale. A fronte delle 600.000 persone previste si sono registrate, invece, 300.000 presenze effettive. Criticare la previsione è facile, ma la spiegazione, secondo me molto plausibile, è che la definizione e la diffusione in anticipo di dati così enormi hanno finito per influenzare i comportamenti delle persone intenzionate a venire a Roma, molte delle quali si saranno spaventate all'idea di entrare, di fatto, in una "bolgia infernale" e di trovare condizioni di traffico e di mobilità impossibili, al punto da scegliere di restare a casa. Quello appena illustrato non è il solo esempio di come si possa intervenire sulla realtà cambiandola, basti pensare all'uso dei sondaggi politici ed elettorali. È il mio mestiere, quindi so bene che i sondaggi sono comunque frutto di ipotesi: non c'è bisogno di manipolare i dati per avere esiti differenziati, perché ciascun ricercatore ha comunque un margine di discrezionalità che, anche applicando criteri rigorosi, è parte della sua attrezzatura. Per essere chiari quando si fa un sondaggio elettorale sulla popolazione c'è sempre un 30-35% di persone che non rispondono o che si dichiarano incerte, in parte perché davvero non hanno ancora preso una decisione, in parte perché non vogliono esprimersi in proposito. Il mestiere del ricercatore in questi casi comporta comunque la necessità di ipotizzare come si comporterà quel 30% di persone che intervistate non hanno risposto, premesso che ovviamente il campione deve essere fatto bene, deve rappresentare in una certa misura la realtà e l'errore statistico deve essere basso. È inoltre necessario introdurre ipotesi atte a stabilire, su base razionale, il comportamento di questo 30% ed a tale scopo provare a costruire un modello di base, un modello che trovi fondamento nelle caratteristiche socioeconomiche e socioculturali del campione considerato. A tale scopo si può prendere in esame, ad esempio, come si comportano gli altri intervistati a parità di vincoli socioeconomici e socioculturali, e ci si può basare anche sullo scarto tra quello che loro affermano di aver votato la volta precedente e quello che in realtà era risultato il voto, sviluppando da ciò un modello matematico che ci consenta una stima di quello che potrà fare il nostro 30%. Alla fine avremo lo stesso un "intervallo di confidenza", ossia una variabile del 2-3%. Come si può notare, dunque, rispetto al dato finale la manipolazione del ricercatore è elevata e questo avviene non per cattiva volontà o per malafede, ma perché non può essere altrimenti. Di conseguenza nel momento in cui "sparo fuori" dati ed affermo una tendenza di voto rispetto ad un Partito o ad un altro Partito, di fatto influenzo la percezione delle persone.
Considero il concetto molto importante perché il ricercatore è l'osservatore che agisce in una realtà ed è immerso in quella realtà, portandosi dietro le sue immagini, i suoi valori, i suoi giudizi ed i suoi pregiudizi. Nel momento in cui, da analisti e ricercatori, affrontiamo la realtà, qualunque tipo di realtà anche quella economica, dobbiamo essere disposti a fare la tara sui risultati della nostra ricerca. Infatti la realtà sfugge come un liquido al quale si sottrae il contenitore che, in un certo senso, siamo noi stessi.
Fino a pochi mesi prima dallo scoppio della guerra del Kossovo nessuno avrebbe immaginato un simile evento, anche se da anni tutti sapevano che prima o poi sarebbe successo qualcosa; tutti erano in possesso di questo dato, tuttavia nessuno poteva prevedere che la crisi sarebbe scoppiata così all'improvviso, quasi da un giorno all'altro. Quello che è avvenuto ha influenzato, ad esempio, la nostra percezione della realtà nel senso che le persone cominciano a pensare alla guerra non più come ad un fatto ineluttabile.
Sto elencando tutti fatti che non sarebbe stato possibile prevedere, ma di cui tuttavia dobbiamo tenere conto, perché ci dimostrano che, essendo l'uomo del tutto imprevedibile, alcuni eventi non sono definibili, trattabili.
Per quanto concerne la necessità, di cui prima ho parlato, di fare la tara di noi stessi nel confrontarci con la realtà, vorrei portare la mia personale esperienza: ogni qual volta, nel corso di seminari o riunioni, mi sono trovato a confrontarmi riguardo a temi molto importanti con responsabili di alto livello, uomini di Governo, leader politici, sindacali o di associazioni imprenditoriali, cioè figure cui è demandato il compito di gestire il nostro futuro, mi sono trovato di fronte ad un cumulo di pregiudizi clamorosi. Un pregiudizio non è un male di per sé, tuttavia è un giudizio non verificato che orienta le nostre scelte. In tal senso è evidente che se io sono un decisore con un impatto sulla società anche molto rilevante ed assumo le mie decisioni pensando ad una realtà fatta ed organizzata in un certo modo ed invece questa è organizzata in modo molto diverso, prenderò decisioni quanto meno non coerenti con ciò che dovrò gestire. In relazione alla costruzione di scenari ciò significa che è inutile disporre di strumenti raffinati dal punto di vista della manipolazione della proiezione, delle variabili, se non si è in grado di sapere in che misura la rappresentazione di queste variabili sia viziata, influenzata dai nostri "pregiudizi", dalla nostra concezione della realtà, dai nostri valori che ci fanno vedere le cose in modo diverso da come sono. Ogni giudizio, ogni analisi, ogni modello non è la realtà ma ne è una rappresentazione ed in proposito deve essere chiaro che qualsiasi statistica non è la realtà. I risultati di un sondaggio dicono come le persone reagiscono alle tue sollecitazioni, non cosa queste pensano.
Un bellissimo sondaggio, fatto negli anni '50 e trovato anni dopo, che si occupava degli orientamenti sociali e politici delle persone conteneva fra l'altro le seguenti domande: 1) "Come ti trovi in famiglia?" 2) "Come ti trovi con tuo padre?" 3) "Come ti trovi con i fratelli?" 4) "Cosa pensi che si possa fare per migliorare la realtà?". Come è evidente in questo sondaggio manca ogni riferimento alla madre, sicuramente perché la figura femminile non era rilevante negli anni '50 quando si parlava di opinioni politiche, in quanto dedita a svolgere un'altra funzione.
Oggi abbiamo l'esigenza di inserire tutto dentro il computer, che ci permette poi di compiere diversi tipi di operazioni, e quindi abbiamo l'esigenza di schematizzare tutto al massimo, pertanto prepariamo dei questionari che, come diciamo noi, sono "chiusi", cioè ogni domanda è alternativa e fissata. Tuttavia se nella realtà che noi vogliamo studiare c'è una ipotesi non fissata dalle nostre alternative, succede che questa semplicemente non viene fuori. Normalmente chi fa sondaggi, e parlo di sondaggi raffinati, si rassegna a non capire il cambiamento o le novità perché non le prevede, in quanto non può prevederle.
Siamo così arrivati al nodo centrale: la sociologia è una scienza in quanto ci permette di costruire delle rappresentazioni della realtà ed anche delle previsioni verificabili, in qualche misura sperimentabili. Tuttavia le scienze sociali hanno anche la funzione, che un tempo spettava alla filosofia, di fornire la possibilità di capire due importanti aspetti: identificare margini di non previsione e di non prevedibilità della realtà ed introdurre margini di errore, ovvero introdurre - anche attraverso il mezzo delle formule statistiche - quelle costanti che accertino la varianza non spiegata. Per essere chiari, quando costruiamo un modello matematico affermiamo che questo ha una soluzione, quindi ha una varianza spiegata, che mi dice, rispetto al fenomeno esaminato, quale quota del totale delle differenze oppure dei cambiamenti (differenze interne ad un campione) è spiegabile con le variabili utilizzate. Se l'impostazione è giusta il modello arriva a capire fino al 60% dei fenomeni, ma deve essere chiaro che comunque il restante 40% delle differenze (di quello che avviene) non è spiegabile con le variabili e costituisce la varianza non spiegata.
Nel nostro metodo dobbiamo introdurre un'ulteriore costante che ci dica in che misura il soggetto che compie la ricerca, essendo parte della realtà che osserva: a) la cambia del tutto; b) la cambia attraverso i suoi occhiali e quindi la deforma.
Nella contesa tra gli economisti ed i sociologi, l'economia ha la pretesa di essere una scienza un po' più esatta di altre e sicuramente ha la pretesa di essere un po' più esatta della sociologia. Volendo, una volta tanto, prendere poco sul serio le polemiche tra economisti e sociologi, si può riportare questa considerazione fatta naturalmente da un sociologo: "Gli economisti spiegano cosa dovrebbe succedere, come dovrebbero andare le cose, i sociologi spiegano, dopo, perché le cose non sono andate come sarebbero dovute andare."
È molto importante, in sostanza, mettere in discussione lo stesso contenuto degli scenari che dovreste e dovrete costruire.
Prendiamo ad esempio la demografia, che è una scienza sociale "quasi" esatta, tuttavia anch'essa si fonda, almeno nel breve periodo, su ipotesi. Se si prendono in esame alcuni aspetti come la fertilità ed i movimenti demografici si noterà che questi sono connessi a componenti sociali certamente imprevedibili. I demografici non hanno previsto il calo demografico degli ultimi vent'anni e neppure il cambiamento di tendenza avvenuto di recente in alcuni Paesi, come la Francia, dove la curva demografica si è invertita. Tali fenomeni infatti non sono collegabili ad ipotesi od a proiezioni di tipo demografico, ma avvengono in ragione di mutamenti di valori di stili di vita, al ruolo nuovo della maternità, al ruolo dello Stato, al piacere che può derivare dal rapporto con i figli....in poche parole dipendono da fattori non prevedibili.
Il mio contributo alla costruzione di uno scenario è di offrire informazioni, ma anche rappresentazioni ed autorappresentazioni, su due problemi che identificano altrettante fratture territoriali e sociali di questo Paese.
Tenterò un'analisi che dovrebbe fornire un punto di situazione sul peso delle fratture territoriali in questo Paese e, nel contempo, sulla frattura interna al sistema sociopolitico, tra società civile e politica. In proposito propongo una serie di domande:
"L'Italia è un Paese disunito? L'Italia è un Paese in cui il rapporto con l'identità nazionale è diverso da quello di altri Paesi? È vero che l'Italia è un Paese ad identità nazionale debole? È vero che l'Italia è un Paese in cui identità locali ed identità nazionale sono in conflitto tra loro? È vero che esiste un nesso specifico tra identità territoriali - intendendo con ciò soprattutto quelli che vengono chiamati i localismi, cioè il riconoscersi nei contesti locali - ed identità politiche "centrifughe", che tendono a frammentare il Paese. È poi vero che queste tensioni sono prevalentemente presenti al Nord ed in alcune altre parti del Paese?
Sono tutte domande che in realtà riflettono orientamenti condivisi largamente, io le ricavo dalla costruzione di prese di posizione, analisi, orientamenti emersi in sede politica, espressi dagli opinion leaders. È chiaro che gli scienziati sociali non devono mettere a fuoco questi orientamenti come postulati ma come ipotesi di lavoro.
Nell'ultimo decennio in Italia il rapporto tra società, politica e territorio è diventato importante e spiega le scelte politiche sia a livello di partiti sia a livello di Governi, o meglio sia a livello di politics che di policy, secondo la più appropriata dizione americana, che distingue appunto fra politics - cioè la politica intesa come partecipazione, mobilitazione dell'identità, riconoscimento - e policy, la politica come realizzazione di politiche, di provvedimenti, di iniziative, di scelte.
In proposito gli esempi non mancano. Nel '94, anno di svolta per il sistema politico italiano dopo la rottura del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica e l'apertura della Seconda Repubblica, troviamo quasi tutte le formazioni politiche che cambiano nome o lo cambiano sostanzialmente. Ebbene le formazioni che "vincono" le elezioni all'interno del Polo sono caratterizzate da un elemento comune: hanno tutte una denominazione che ha a che fare con la caratterizzazione territoriale del Paese. Si tratta infatti della Lega Nord, di Forza Italia e di Alleanza Nazionale, partiti che si autodefiniscono con nomi che richiamano l'elemento del territorio.
Per mia esperienza personale - sono un itinerante per lavoro, un nomade dal punto di vista della professione - ho colto che, quando si è votato negli ultimi anni a Vicenza prima per la Provincia e poi per il Comune, le undici liste che, se ben ricordo il numero, si erano presentate alle Comunali, avevano come simbolo il Leone di S. Marco; forse l'unica formazione a non utilizzare tale simbolo era paradossalmente la Lega Nord. Inoltre non vi era nessuna lista che non si riferisse a Vicenza, al Veneto, al Nord, al Nord-Est. Ho già visto alcune liste per le prossime elezioni a Padova, dove insegno, ed il Leone c'è anche lì, insomma il territorio è diventato un marchio.
In occasione delle amministrative del 1995 in Italia, ho censito assieme ad alcuni miei collaboratori dell'Università di Urbino circa 250 liste tra le maggiori (senza contare le liste civiche più piccole) che, da Nord a Sud, facevano esplicito riferimento non alla città, ma ad un contesto regionale o di area; non solo dunque in Sicilia, dove tradizionalmente, anche per ragioni storiche, trionfano le identità.
Quindi parrebbe che nulla come il territorio oggi sia in grado di far vibrare le corde dell'emozione dei cittadini; a differenza di quanto avveniva dieci/quindici anni fa, il territorio è diventato un ambito di riferimento decisivo per gli orientamenti sociali e politici delle persone. Possiamo allora provare a fare una ricostruzione al rovescio, chiedendoci subito perché questa situazione non si è manifestata nei primi quarant'anni della nostra Repubblica. Infatti nel dopoguerra, ed in particolare nel periodo che va dalla Costituente fino agli anni '80, non c'è stata alcuna elezione in cui siano stati presentati, su scala nazionale, simboli in grado di garantirsi il successo attraverso il riferimento al territorio. In altre parole, in Italia, la politica ha rimosso il territorio per trenta/trentacinque anni e per registrare un'inversione di tendenza bisogna arrivare agli anni '80, quando il fenomeno opposto si è presentato con una certa rilevanza fino ad esplodere negli anni '90. Si può obiettare che sono sempre esistite le liste a carattere regionale, ma queste erano presenti nelle Regioni a Statuto Speciale, laddove sono costituzionalmente previste: un'ulteriore conferma del fatto che il territorio era stato sostanzialmente rimosso dal dibattito politico.
Il problema territoriale si era presentato, in Sicilia, alla fine degli anni '40, quando erano sorti i movimenti secessionisti, anche armati; la questione triestina, invece, si era risolta nel '54, mentre la questione del lodo altoatesino si è risolta ancora dopo. Tuttavia tutte queste realtà erano realtà o di confine o specifiche, comunque non tali da avere un impatto di tipo nazionale.
Secondo la mia opinione in Italia il territorio non ha avuto per molti anni un impatto notevole proprio perché il problema era stato stimato come rilevante dalla classe politica dell'epoca che individuava, intorno a questo tema, pericolosi fattori di divisione per il Paese appena uscito da una guerra lacerante. Possiamo ancora asserire che l'Italia in qualche modo aveva dimenticato e rimosso i fattori di divisione territoriale, di differenza territoriale, perché questi più che in altri Paesi avrebbero avuto, in tempi in cui si tentava di ricostruire, un effetto di frattura invece che di coesione.
A questo punto osserviamo più da vicino i principali elementi di divisione che caratterizzano il nostro Paese sotto l'aspetto territoriale. Il primo è la frattura Nord-Sud, che è nel contempo storica, coerente, costitutiva ed originaria dello Stato nazionale. Quando si parla di Nord-Sud di solito si tende a sottolineare come il problema dell'Italia, nel costruirsi come Stato, sia stato il Mezzogiorno; del resto l'Italia "è stata fatta dal Nord", in particolar modo dal Piemonte, e così pure l'economia italiana, visto che questo è un Paese in larga misura a matrice piemontese-sabauda, (sia dal punto di vista politico-istituzionale, sia dal punto di vista economico), si caratterizza per scelte di politica economica prevalentemente condizionate dal Nord.
La ricostruzione dell'Italia è sempre stata vista come un problema a doppio binario. Si è pensato che il distacco dall'identità nazionale fosse maggiore nel Mezzogiorno e, nel contempo, si è considerato che la ricostruzione del tessuto socioeconomico nazionale (questo non solo nel ‘800/‘900, ma anche nel dopoguerra, tracciando in questo modo una sorta di parallelo) rappresentasse un problema di sviluppo. Di conseguenza si è ritenuto che colmando il divario, la frattura dello sviluppo, si sarebbe colmato anche il differenziale d'identità. La ricetta utilizzata a più riprese è stata quella di sanare, colmare le fratture tra Nord e Sud, facendo leva sull'economia, sullo stato di sviluppo del Mezzogiorno, introducendo elementi di industrializzazione, soprattutto pesante. L'idea era che lo strumento dell'industrializzazione e del miglioramento delle infrastrutture avrebbe colmato, oltre al gap economico, anche quello del benessere e quello dell'identità nazionale.
Il secondo elemento di divisione presente in Italia è la frattura localista fra centro e periferia. L'Italia è un Paese fatto di contesti urbani, regionali e territoriali, ed in tal senso, a detta di alcuni storici, l'Italia non è una Nazione ma un "paese" con la "p" minuscola.
Si parla degli italiani da almeno sei secoli, la letteratura ne parla da sette secoli, però ne parla nel senso opposto a quello della frase: "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani".
A mio avviso gli italiani ci sono: il vero problema è l'Italia, nel senso che ci sono molte "Italie", questo è un Paese fatto di Municipi dove, di conseguenza, c'è un basso senso di appartenenza nazionale e dove ciascuno è figlio della propria realtà locale e figliastro della realtà nazionale, in tal senso possiamo dire che la nostra città è la nostra madre e la nostra Nazione è la madre acquisita, putativa, adottiva. In altre parole: l'Italia rispetto ad altri Paesi è uno Stato a bassa appartenenza nazionale, a basso orgoglio nazionale, è una realtà nella quale si esaltano le differenze più che le coerenze.
Un altro elemento ha spinto, anche in passato, a fare del territorio un elemento di frattura invece che di coesione. Non è solo un problema di localismo: il nostro è un Paese fatto di grandi differenze interne, un Paese che ha una scarsa identità comune, ed è proprio per questo motivo che le differenze territoriali vengono rimosse, nascoste, dissimulate. Ciascuna di queste differenze è storicamente costituita, dura e profonda, pesante da rimuovere e quindi ad alto rischio. Chi si è occupato della costruzione del Paese, soprattutto dopo il disastro del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale, non ha potuto farlo sulle differenze perché si trovava di fronte ad un Paese disfatto, tanto più che il secondo dopoguerra - questa è una connotazione da sottolineare - coincide anche con la fine di un processo politico, messo in moto dal fascismo, che aveva costituito il principale tentativo di questo secolo di costruire un'identità nazionale.
Il fascismo infatti aveva tentato di creare uno Stato centralista, una Nazione che si identificasse con lo Stato, secondo un modello tipico di quell'ideologia, che tra l'altro si è basato, almeno per un periodo, su di una politica culturale di tipo assimilativo che tendeva, ad esempio, a scoraggiare l'uso dei dialetti. Si tratta di un modello quasi francese, ancora più ipertrofico dal punto di vista dell'uso dello Stato, inteso come Stato-Partito-Nazione. È obiettivamente difficile pensare alla crisi dei partiti di massa italiani, senza tenere conto che questi comunque sono nati e cresciuti su un humus che è stato costruito dal ventennio fascista, in un periodo in cui la partecipazione collettiva, di massa ha provocato una identificazione tra partito e Stato. Non esiste, infatti, negli altri Paesi l'idea di un partito di massa di grande mobilitazione, com'era la DC in Italia, caratterizzato da una forte integrazione con l'istituzione statale; certamente esistono negli altri Paesi partiti di massa, ma con una distinzione molto netta rispetto allo Stato.
Nel secondo dopoguerra i partiti di massa, che sono alla base della Costituzione e della costruzione di questo Paese, di questa Nazione, si presentavano come partiti a carattere nazionale anche se entrambi, sia il Partito Comunista che la Democrazia Cristiana, hanno identità che non sono nazionali ma universali.
Negli anni ‘45-'46 è iniziata la costruzione dell'Italia sulla base di un Paese che aveva scarsa coscienza democratica e che si presentava fortemente diviso, nonostante il tentativo di costruzione centralista da parte dello Stato fascista, o meglio da parte del regime fascista, che aveva inteso rimuovere la differenziazione territoriale.
C'era questa strana situazione: il territorio continuava ad essere importante in Italia, ma durante tutto il periodo del secondo dopoguerra non veniva nominato, non si pronunciava, anche se i partiti di massa, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, avevano un rapporto molto stretto col territorio e tenevano ampiamente conto delle differenziazioni territoriali. Se si prende una mappa politica dell'Italia di quel periodo, si notano alcune costanti: il Nord-Est è zona "bianca", caratterizzata dalla presenza della Democrazia Cristiana, il Centro Italia è invece "rosso", caratterizzato dal voto ai partiti di sinistra, nel Mezzogiorno è presente una certa instabilità politica, mentre un maggiore equilibrio è nel Nord-Ovest, in città quali Milano, Torino e Genova. C'è dunque un'ampia parte del Paese, dove praticamente hanno sede i partiti più forti, Nord-Est e Centro Italia, che è stabilizzata e dove esiste davvero un rapporto stretto tra identità territoriale ed identità politica, tuttavia questo concetto rimane inespresso.
La Democrazia Cristiana non si identifica come il movimento del Nord-Est, né come Lega del Nord-Est ed il Partito Comunista non si presenta come la Lega del Centro, tuttavia entrambi questi partiti hanno una forte componente territoriale. In altre parole si tratta di due partiti che comunque hanno un forte radicamento in contesti locali, le cui politiche e la cui legittimazione si fondano sul rapporto stretto con il contesto locale, tanto che per alcune aree si può parlare di clientelismo, per altre di municipalismo.
A mio parere, senza dubbio, la Democrazia Cristiana ha costituito a lungo una federazione di élite locali, di notabilati, di gruppi dirigenti diversamente connotati, al punto che è raro trovare un partito tanto differenziato al suo interno dal punto di vista ideologico, ma che al contempo è in grado di svolgere la funzione di contenitore di élite locali e di gestire rapporti - questa è anche l'opinione di molti studiosi di policy - attraverso lo scambio localista centro-periferie.
Il Partito Comunista si autodefinisce, soprattutto negli anni '70-'80, come il partito delle autonomie, il partito del buon governo locale, il partito dei sindaci. D'altra parte tale formazione politica è costretta ad orientarsi in questo senso per il fatto di essere esclusa dal Governo centrale, mentre quasi per convezione (un buon grado di consociativismo era presente nel dopoguerra) gli viene riconosciuta una forte presenza nelle Regioni e nei Comuni, esaltando in qualche modo il suo ruolo, ad esempio come partito dei sindaci dell'Emilia Romagna.
Il territorio, già ben presente nelle strategie e nelle scelte dei partiti nazionali, che agiscono sempre tenendo conto delle differenze territoriali, esplode come fenomeno negli anni '80. La tendenza è poco visibile all'inizio, al punto da essere mentalmente rimossa, ma nessuno può più contenerla negli anni '90.
A partire dagli anni '80 emergono sulla scena politica soggetti che non solo si riferiscono a queste fratture territoriali ma le usano come bandiere: l'origine di tali movimenti si situa proprio laddove questi elementi di frattura venivano rimossi. Nel 1983, per la prima volta, la Liga Veneta - quindi un partito che, nato al di fuori delle Regioni a Statuto Speciale, si presenta autodefinendosi in senso territoriale - ottiene il 5%, dei voti. Oggi il 5% può apparire poca cosa, ma bisogna tenere conto che all'epoca tre dei cinque partiti allora al Governo stavano dentro il 3% e che un risultato intorno all'1% poteva rappresentare un gran trionfo oppure una grande sconfitta; inoltre fino ai primi anni '80 non si facevano sondaggi elettorali, dato che nessuno li riteneva importanti, quindi questo risultato rappresentò una sorpresa.
Occorre considerare questa premessa per capire che il 5% ottenuto in una Regione solidamente e solitamente stabile come il Veneto, rappresentò un risultato certamente significativo, tanto più che la percentuale di voti ottenuti arrivava fino al 7% in alcune Provincie - le più bianche, quali Vicenza, Treviso e Belluno - ovvero nell'asse centrale dove si trovavano le zone più industrializzate, quelle che stavano esplodendo. Tutti hanno sottovalutato il fenomeno, che si voleva, lo ricordo, ricondurre ad un fenomeno contadino, del passato. Una spiegazione che certamente non mi convinse, probabilmente perché vivevo in quella zona, in un paese che si chiama Schio, in un'area industrializzata, forse tra le più industrializzate d'Italia anche per tradizione storica (già nella seconda metà dell'800 era uno dei poli più industrializzati in Europa); pertanto, di fronte ad un risultato locale della Liga intorno al 12% e sentendomi dire che il fenomeno identificava il passato e quindi i contadini, mi resi conto che esisteva qualcosa che si stava rompendo.
La rottura diventò definitiva negli anni '90, nel senso che il territorio, cioè la Lega (la Liga prima, poi la Lega Nord), diventarono una colossale operazione multipla a carattere deflagrante. L'operazione era semplice: portare al centro dell'attenzione quello che prima era rimosso, parlare di tutti quegli elementi che in precedenza venivano, per pudore o per timore, dissimulati. Di conseguenza la frattura Nord-Sud viene sottolineata ed evidenziata, sino al punto di affermare che il Nord è contro il Sud. Le distinzioni tra Centro e periferia e tra i Comuni, le identità locali, sono altrettante conferme di una realtà per la quale noi non siamo italiani bensì veneti, siciliani, marchigiani, anzi cittadini delle nostre Regioni.
Nello stesso tempo, la frattura fra Nord e Sud si è rovesciata. Fino ad allora la questione nazionale era la questione meridionale, nel senso che in tale area trovava fondamento l'equazione "basso sviluppo = bassa identità nazionale", a partire dagli anni'80 e fino ai '90 la questione nazionale è diventata quella settentrionale, con un rovesciamento dei termini del problema perché oramai il disamore nei confronti dell'Italia è maggiore dove è maggiore lo sviluppo, non dove è minore lo sviluppo. Per una qualche strana ragione, le regioni sono diventate più evidenti, il territorio, tenuto a bada per anni, è scappato dalle mani ed è diventato una bandiera di disunità; se prima le problematiche territoriali erano state dissimulate, per paura che generassero contraddizioni, adesso vengono usate proprio per generare contraddizioni. In ogni caso dietro ai due atteggiamenti di chi, da una parte, nascondeva le differenze territoriali e di chi, dall'altra, tende oggi ad esaltarle, c'è una comune convinzione, un comune giudizio, ovvero che il territorio è un elemento di divisione, di frattura e di contraddizione per l'Italia.
Negli anni '90 il territorio diventa una bandiera politica perché entrano in crisi le altre bandiere politiche, infatti i partiti di massa un po' sono scomparsi, un po' sono divisi od hanno cambiato nome, ovvero sono venuti meno i fondamenti su cui si basavano. In particolare entrano in crisi le due anime della politica in Italia: l'identità cattolica e l'identità di classe. I cattolici non sono scomparsi però è venuto progressivamente meno il legame diretto tra religione e politica: già dagli anni '70 la religione non è più in modo evidente il fondamento di un'identità politica e la stessa DC non è più il partito dei cattolici e questi votavano anche diversamente. Per quanto concerne l'identità di classe, in una società in cui la mobilità è diventata forte e le differenze meno evidenti, difficilmente questa porterà ad una frattura di classe. Inoltre la frattura Est/Ovest, comunismo/democrazia, mercato e società statalizzata, viene messa in crisi dalla caduta del Muro dell'89, che fa venire meno anche la ragione che definiva il bipolarismo della politica in Italia, divisa tra DC e PC, partiti di governo e partito comunista.
A questo punto quello che veniva mascherato, dissimulato diventa una bandiera: esibire il territorio diventa un modo di opporsi a coloro che lo nascondevano, e non a caso diventa una delle ragioni del successo della Lega negli anni '80-'90, che si fa carico di una molteplicità di ragioni di dissenso e di malessere che emergono dentro la società. La Lega diventa così il partito contro i partiti, diventa il partito di chi produce contro il partito di chi dissipa e di chi consuma, il partito dei produttori contro il partito di coloro che erodono le risorse dello Stato.
Arriviamo agli anni '90 ed in particolare alla crisi che c'è tra il '92 e il '94, che in una certa misura viene identificata come la crisi dei fondamenti dell'identità politica, appunto dei fondamenti "ideologici" sui quali poggiava la Prima Repubblica.
Un noto filosofo della politica, il torinese Gian Enrico Rusconi, in un libretto del ‘92 dal titolo "Se cessiamo di essere una Nazione" scrive: "Il territorio diventa un problema che prima non c'eravamo mai posto, di cui non avevamo neanche mai parlato. Ci scopriamo di fronte al problema della Nazione". Nessuno aveva mai preso in esame, finora, le conseguenze derivanti dal fatto di poter cessare di essere una Nazione. Scopriamo le nostre diversità, ne prendiamo atto, nel momento in cui diventano un fattore "di rischio" di unità nazionale e, da allora ad oggi, assistiamo, seppure con alterne vicende, all'emergere in politica dei riferimenti al territorio come riferimenti specifici di disunità e di antagonismo.
Siamo quindi passati da una fase in cui non si parlava mai di territorio o di Nazione ad una fase del tutto contraria, secondo la quale il federalismo è diventato una sorta di panacea applicabile a tutto ed al centro del dibattito politico del Paese non troviamo soltanto il territorio come identità ma come progetto globale di riforma per gli anni a venire.


La mia lettura si soffermerà sulla definizione di scenari in termini generali, sulla definizione di ipotesi plausibili, sull'influenza dei fattori economici e sulla possibilità che emergano situazioni di tensione rispetto a tali situazioni, - un argomento di maggior interesse per chi si occupa della sicurezza del Paese - ed infine sull'efficacia di determinate azioni di contrasto rispetto ad altre.
Vorrei per prima cosa affrontare il problema della costruzione di ipotesi plausibili, che abbiano un minimo di probabilità di realizzazione, e dell'influenza dei fattori economici sui fattori di sicurezza complessiva del Paese. In proposito è importante partire da quelle che possiamo definire le fondamenta economiche delle situazioni genericamente definibili di tensione sociale, nella consapevolezza che i legami tra economia e situazione di tensione, tra economia e illegalità in molti casi sono assai complessi. Questi legami non sono a senso unico; se è vero che possiamo rintracciare fattori economici alla base dell'emergere di alcune situazioni di tensione è altrettanto vero il contrario: spesso sono le situazioni di alterazione della vita legale di un Paese che conducono ad alterazioni, talvolta gravissime, del tessuto economico. Ad esempio la presenza di fenomeni di racket, molto diffusi in alcune zone del Paese, altera completamente il concetto di concorrenza tra soggetti, allontanando investitori dalle aree caratterizzate da elevata presenza dell'illegalità o da situazioni percepite come causa suscettibile di potenziale tensione sociale.
Aprendo una breve parentesi, proprio recentemente il Consiglio degli esperti economici, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha accentrato la sua attenzione sul tema "Economia e criminalità, sviluppo e criminalità"; in quella sede noi economisti abbiamo avuto il conforto della presenza del Procuratore Nazionale Antimafia, Dott. Vigna, e del Vice Capo della Polizia, Dott. Di Gennaro, che hanno portato alla nostra attenzione, con tutto il loro straordinario bagaglio di esperienze e conoscenze tecniche, i dettagli di questo delicatissimo rapporto tra sviluppo e legalità.
Il primo problema che si presenta, dunque, è quello di queste due sfere che non sono una preminente sull'altra ma che sono tremendamente connesse tra di loro. Il secondo problema è che l'economia in quanto tale, in qualsiasi settore in cui essa venga applicata, non è in grado - occorre che ne siamo tutti consapevoli - di offrire interpretazioni univoche. Questo avviene ad esempio quando si vogliono analizzare le cause della disoccupazione o capire i motivi dell'emergere di sacche di povertà in alcune zone e quindi anche del nascere di potenziali focolai di tensione.
La difficoltà di un'interpretazione unica deve servire come stimolo a non ricercare semplicemente ricette già scritte ma a basarsi su set di informazioni da costruire, che possano servire ad analizzare meglio le connessioni: disoccupazione / crimine povertà / crimine o tensione sociale.
Una volta capito quanto sia critico questo rapporto tra economia e illegalità, è importante provare a definire cosa si intenda per situazioni di tensione. Da parte mia, ho alle spalle non soltanto l'esperienza dell'economista, ma conosco cosa significa un'alterazione del sistema economico e quando parlo di situazioni di tensione intendo situazioni abbastanza ad ampio raggio, a 360 gradi. L'esistenza diffusa di racket malavitosi rappresenta una fortissima alterazione del tessuto economico, una degenerazione profonda della vita sociale, della vita quotidiana, che può interessare intere aree di un Paese. Non parliamo naturalmente della presenza forte di criminalità organizzata ma di situazioni di tensione, comprendendo fra queste anche l'ampia diffusione, ad esempio, della piccola criminalità nonché i disordini più o meno aperti a carattere sociale. Si tratta di un universo molto ampio di tensioni.
I meccanismi di carattere economico, utili per analizzare, e quindi prevedere le situazioni di tensione, normalmente identificano come zone a potenziale rischio le aree ad elevata disoccupazione, le aree di elevata povertà e le aree dove si presenta forte il problema della scarsa integrazione sociale.
D'altra parte non mancano i paradossi in quanto esistono, invece, aree in cui, a prescindere dal reddito o spesso proprio perché la ricchezza è in forte crescita, si aprono spazi per infiltrazioni malavitose, per tutto quell'universo che ho cercato di descrivere molto brevemente poc'anzi.
In tal senso si registrano situazioni di forte tensione sia in alcune province campane, ad elevata disoccupazione o forte immigrazione, che nelle aree tradizionalmente ricche del Paese, quale Milano e dintorni. Pertanto attribuire alla sola disoccupazione od alla sola povertà od alla sola scarsa coesione sociale, la potenzialità di tensioni sociali è riduttivo, anzi spesso e volentieri lo sviluppo di un'area crea le occasioni giuste per l'infiltrarsi della criminalità.
Proprio in quella riunione cui ho accennato ci veniva riferito dai nostri autorevoli interlocutori che le tensioni di tipo sociale in senso lato, quelle situazioni di alterazione cui mi riferisco, non hanno necessariamente bisogno di un terreno di coltura povero. Questo genere di terreno di coltura povero è quello in cui nascono le tensioni fra gli immigrati assunti per la raccolta degli ortaggi del casertano, per esempio; tuttavia anche in questo caso si tratta di tensioni che hanno bisogno di un'economia dinamica, che crei ricchezza e che quindi questa ricchezza possa essere distribuita anche in forme che di legale hanno poco.
Le zone fortemente infiltrate dalla criminalità organizzata sono aree comunque interessate da qualche forma di sviluppo. Per quanto paradossale possa apparire non è interesse delle criminalità strozzare fino in fondo il tessuto economico di una zona perché poi si finirebbe per diminuire anche i proventi ed annullare i vantaggi di carattere economico ricavabili in quella stessa zona.
Si tratta di un quadro abbastanza complesso, pertanto le considerazioni che intendo svolgere si baseranno su tre temi di discussione rispettivamente dedicati al rapporto disoccupazione/tensioni, al rapporto povertà/scarsa coesione sociale e tensioni ed alla correlazione fra aree più sviluppate e tensioni. Si tratterà, da una parte di capire la natura delle tensioni che possono emergere dalle degenerazioni dell'economia come la disoccupazione, l'elevata povertà, la scarsa integrazione sociale, e dall'altra di approfondire i percorsi virtuosi dell'economia interessata da un ritmo di sviluppo forte.
Parlando del rapporto tra disoccupazione e povertà, scarsa integrazione sociale e tensioni, non posso non partire da un breve quadro macro-economico. Le condizioni economiche delle singole aree da esaminare sono frutto di due elementi: il primo, nel quale la storia ha lavorato per decenni e per secoli, è l'universo dei fattori strutturali ossia di tutti quei fattori che non sono scaturiti da una scelta politica recente, bensì sono il portato di una lunga storia, il cui peso, determinante per lo sviluppo economico, ha diviso il Paese in due grandi aree spesso molto divergenti tra di loro. Si tratta di un blocco di fattori che operano da anni, come il vento sui sassi di una scogliera che modula le pietre rendendole di forme diverse nel corso degli anni.
Il secondo elemento proviene da fattori più recenti, di "novità", quei fattori determinati da scelte recenti della politica.
Occorre, quindi, sforzarsi di capire sia quello che ci consegna il lungo periodo della storia, sia quello che invece ci consegna la storia più recente.
Se noi osserviamo il nostro Paese negli ultimi due o tre anni questo quadro macroeconomico presenta senz'altro elementi molto favorevoli da un lato e assai negativi dall'altro. Il nostro Paese è riuscito a raggiungere quasi miracolosamente, (come dicono i nostri partner stranieri), ma con una straordinaria determinazione da parte dei governanti e dei cittadini, una situazione di stabilità monetaria e finanziaria che probabilmente nessuno di noi ricordava. Attualmente abbiamo tassi di interesse inferiori al 3%, e chiunque intenda chiedere mutui per la casa può stipulare un contratto al 5% fisso; il crollo dei tassi di interesse inoltre ha determinato una maggiore convenienza ad investire da parte delle imprese.
Aprendo la pagine finanziarie dei giornali si può osservare che i nostri tassi di interesse sono identici a quelli dei francesi e dei tedeschi. L'inflazione è ormai stabilmente sotto il 2%, mentre tutti noi abbiamo conosciuto l'inflazione al 20%, per anni al 7-8% senza che mai si riuscisse ad aggredirla definitivamente per ridurla in maniera consistente. Oggi non consideriamo più l'inflazione come un fattore di tensione sociale proprio perché l'abbiamo ridimensionata, l'abbiamo sconfitta. La storia ci insegna che in passato, in tanti Paesi, la crescita incontrollata di prezzi era alla radice di fortissime tensioni sociali e sono molti gli esempi di democrazie crollate perché i prezzi crescevano a ritmi del 1000-2000% al mese. A causa dei risparmi che venivano annullati, dell'insicurezza che permeava ogni decisione economica dei cittadini e degli operatori, alcuni Paesi si sono letteralmente estinti. Oggi, per fortuna, nei nostri scenari, vista la sconfitta di questa pianta cattiva che ha portato i prezzi ad una crescita dell'1.3-1.5% all'anno, una modifica di carattere strutturale colossale ha cancellato un potenziale fattore di instabilità enorme.
I tassi di interesse bassi, la bassa inflazione, ed un bilancio dello Stato sostanzialmente risanato, costituiscono certamente una novità per un Paese che soltanto nell'85, non 40 anni fa ma 14 anni fa, viveva con un credito del 15% l'anno, cioè spendeva il 15% in più di quanto potesse permettersi di fare, di quanto fossero le risorse effettivamente create, ed è un fatto che oggi siamo poco sopra il 2%. Se si pensa che il disordine finanziario costituisce un potenziale fattore di instabilità proprio perché si accompagna all'inflazione, alla incertezza degli operatori che non avendo orizzonti chiari di medio-lungo termine, si trovano nell'impossibilità di pianificare le loro decisioni, questa stabilizzazione è un fattore di straordinaria importanza. Tassi di interesse bassi, inflazione bassa, bilancio dello Stato in ordine, sono fattori che, a mio parere, danno conto della capacità di controllo di un Governo e quindi della politica sull'economia nel suo complesso.
Cresce l'affidabilità del Paese e la credibilità di cui gode, con una ricaduta positiva sulla stessa immagine, sulla capacità di attrarre investimenti dall'estero. Per circa un anno e mezzo, a Palazzo Chigi ho coordinato un tavolo di lavoro con le società multinazionali; quando queste devono decidere dove investire hanno proprio, anche se può apparire banale, un foglio di carta in cui sono indicati venti, venticinque fattori per ciascun Paese, rispetto ai quali devono dare un voto. Alcuni dei fattori sono largamente favorevoli per quanto concerne l'Italia, ad esempio il clima, l'amabilità della popolazione, eccetera, mentre altri, quali le procedure complesse della Pubblica Amministrazione ed il costo del denaro maggiore al Sud, sono fortemente penalizzanti. Tuttavia per lungo tempo c'era un "meno" gigantesco sulla casella che riguardava la stabilità macroeconomica in Italia. Oggi siamo nella situazione degli altri Paesi: chi confronta la situazione di Francia, Spagna, Olanda ed Italia, sa che in Italia può contare su una situazione di certezze, su una situazione di stabilità e quindi di programmabilità del futuro.
Esaminati i fattori positivi che ci hanno caratterizzato in questi ultimi tre anni, nella speranza che questo trend possa proseguire anche nel prossimo futuro, è assolutamente innegabile che la nostra economia si è mossa a ritmi abbastanza contenuti. L'Italia ha chiuso il 1998 con una crescita dell'1,3%, meno della metà di quella che è stata la crescita in Europa, per non parlare del boom senza fine dell'economia statunitense. Pertanto, se esaminiamo la situazione economica in un contesto di raffronto con gli altri Paesi, non possiamo che constatare una situazione di difficoltà dell'Italia.
Siamo stati penalizzati soprattutto dal crollo di alcuni mercati esteri, quali quelli dei cosiddetti Paesi emergenti del Sud-America e dell'Asia, ed anche di alcuni Paesi africani. Poiché siamo un Paese fortemente esportatore nel momento in cui questi mercati si sono contratti e le economie di alcuni di questi Stati sono crollate, tra il '97 e il '98, molte imprese italiane si sono trovate in enormi difficoltà. Secondo i calcoli effettuati, l'Italia avrebbe perso un punto di crescita a causa della crisi partita dall'Asia e poi allargatasi: ciò significa che lo scorso anno saremmo potuti crescere del 2,5-2,3%. Un risultato niente affatto disprezzabile, se si pensa allo sforzo enorme compiuto per arrivare a quel risanamento finanziario di cui abbiamo parlato, che ci ha consentito di passare dal 6,6-6,7% del rapporto disavanzo PIL al 2,6-2,7 % , 4 punti di PIL, cioè 80.000 miliardi all'incirca. In assenza della crisi asiatica avremmo avuto una crescita sicuramente superiore al 2%, quindi un vero e proprio miracolo, un secondo miracolo oltre a quello di essere riusciti a stabilizzare l'economia.
Sarebbe d'altra parte riduttivo limitarsi ad incolpare della mancata crescita le aziende thailandesi o brasiliane o russe che hanno importato meno macchinari italiani, mentre è opportuno analizzare con rigore le altre cause che hanno portato a questo rallentamento, anche in ragione degli inevitabili riflessi sulla disoccupazione e quindi sulla povertà.
Un'economia in crescita infatti è fondamentale per contrastare disoccupazione e povertà, nonché per garantire un tenore di vita più elevato al Paese.
Sul piano internazionale, un altro fattore importante di crisi è venuto dall'adattamento al nuovo ambiente dell'EURO. Sul piano della stabilità finanziaria gli straordinari risultati citati prima ci hanno consentito di entrare orgogliosamente nell'Europa della Moneta Unica insieme al primo gruppo di Paesi. Un vantaggio straordinario, se si pensa quali sarebbero potute essere le conseguenze di aver mancato l'appuntamento come spesso e volentieri i vertici del nostro Governo ci hanno ricordato. Possiamo solo rammentare che avremmo avuto una moneta allo sbando, una moneta svalutata, tassi di inflazione in crescita, tassi di interesse nuovamente più alti eccetera; al contrario l'essere dentro questa blindatura offerta dalla Moneta Unica ci ha consentito di metterci al riparo dalle tensioni valutarie più forti verificatesi lo scorso anno.
D'altra parte l'onestà ed il rigore intellettuale ci portano a chiarire che cosa significa essere nell'EURO, essere con la Moneta Unica, rispetto al vagare in maniera flessibile fuori dell'area della Moneta Comune. La prima grossa differenza è per le imprese che prima dell'EURO recuperavano competitività svalutando nel momento in cui si presentava una difficoltà sul piano dei costi od una difficoltà a penetrare alcuni mercati. In tali casi la nostra moneta percepiva questa situazione di squilibrio e di instabilità che si veniva a creare, alcune volte si vedeva la lira precipitare. Nel periodo in cui l'Italia faceva parte dello SME, un sistema nato nel '79, credo ci siano stati undici o dodici riallineamenti della lira; questi non erano altro che svalutazioni della moneta dovute ad un livello di inflazione largamente superiore a quello di altri Paesi. La perdita di competitività delle nostre merci per via dei prezzi che crescevano il doppio, il triplo rispetto a quelli di altri Paesi europei, faceva sì che dovessimo essere costretti a recuperare sul piano valutario con operazioni di svalutazione.
Ricorderete tutti il trauma del settembre del '92, quando fummo espulsi ignominiosamente dal sistema monetario europeo e svalutammo, passando da un cambio col marco grosso modo intorno alle 750 lire alle 920 lire, addirittura arrivando alle 1150/1180 lire in alcune punte congiunturali.
Questi fattori negativi si tramutavano in altrettanti fattori positivi dal punto di vista della competitività delle merci delle nostre imprese, che in tal modo recuperavano forti margini di profitto.
Oggi non siamo più in questa situazione e non possiamo recuperare competitività, ad esempio con i francesi o con i tedeschi, attraverso la svalutazione perché abbiamo un tasso di cambio irrevocabilmente fissato, che è la premessa per l'unificazione delle banconote, delle monete, che avverrà tra qualche anno.
Da molti mesi, ormai, c'è questa litania dell'EURO che cala rispetto al dollaro, e viene ripetuto - e qui c'è tutta la retorica sull'EURO - che l'EURO era partito forte ed ora è debole. Tuttavia è anche vero che, per gli esportatori non più soltanto italiani ma anche europei, questo indebolimento nei confronti del dollaro significa la possibilità di competere meglio e di esportare con più facilità negli Stati Uniti o comunque nell'area del dollaro.
Quindi, nell'Europa della Moneta Unica, le nostre imprese hanno perso totalmente ogni margine di flessibilità valutaria all'interno del gruppo degli undici Paesi che costituiscono l'Unione Monetaria Europea; tuttavia, assieme a questi altri dieci Paesi, manteniamo margini di flessibilità nei confronti delle aree esterne, quali le aree dello yen giapponese e del dollaro statunitense. Naturalmente l'andamento presenta dei margini di flessibilità e la moneta può rafforzarsi o svalutarsi.
Tornando alle nuove rigidità per le imprese, determinate dal contesto della Moneta Unica, è importante stabilire dove le imprese possano trovare margini di recupero di competitività. La strada della svalutazione non esiste più, la strada degli aiuti di Stato a pioggia non è più praticabile perché l'Unione Europea non ce lo consente. In passato abbiamo assistito a finanziamenti di interi stabilimenti da parte dello Stato, ma oggi misure economiche di quel tipo sono assolutamente impossibili perché il Commissario alla concorrenza ci strangola. Oggi i finanziamenti ad industrie private od il mantenimento di monopoli pubblici vengono considerati in ambito europeo. Tali tipi di intervento vengono consentiti solo in casi eccezionali, quando si tratti di imprese che si cerca di riportare ad un minimo di efficienza e di profitto in settori particolarmente strategici.
In mancanza di svalutazione e di aiuti da parte dello Stato, l'unica strada praticabile per le imprese è quella del recupero di tutta la loro capacità di competizione al loro interno, operando sui costi e sulla capacità di produzione e di vendita.
Questo modo di operare non è una novità rispetto al passato per tanti nostri partner, dagli Stati Uniti alla Germania, ma per il nostro Paese è senz'altro una novità, che dovrà essere sicuramente superata in senso positivo perché non c'è alternativa.
E' senz'altro una novità, infatti, che le imprese del nostro Paese debbano trovare unicamente al loro interno le ragioni del loro successo, quindi riuscire a gestire i costi in modo molto attento e sia chiaro che non mi riferisco soltanto ai costi del lavoro. Si pensi ad altre componenti possibile oggetto di attenzione, in tema di frammentazione delle imprese per esempio, oppure di strategie di vendita.
Dovrà essere posta maggiore attenzione alla qualità, alla soddisfazione del consumatore, sia a livello di produzione che di distribuzione. A proposito di quest'ultima è in atto il tentativo di razionalizzare questa catena molto complessa e inefficiente, che spesso ha caratterizzato il meccanismo di passaggio delle merci o dei servizi dal produttore all'utilizzatore finale. Siamo quindi in una situazione in cui le imprese sono un po' intimidite da questa nuova situazione e stanno faticosamente adattandosi a questo ambiente più rigido e più competitivo, cercando di adottare strategie di investimento che si presentano più favorevoli da tanti punti di vista, con i tassi di interesse che vi ho citato, o di cogliere l'ampia disponibilità di credito. Una politica di bassi investimenti, soprattutto nelle zone del Paese già ad elevata disoccupazione, non può che accentuare problemi e rischi.
Un altro fattore, che ognuno di noi conosce perché guarda nelle proprie tasche, è la compressione della disponibilità di redditi negli ultimi anni, con un andamento che in termini reali risulta piatto a partire dal ‘91,'92.
In questi ultimi anni, allo scopo di riordinare la finanza pubblica e di rimettere in ordine la situazione monetaria, i redditi delle famiglie italiane sono stati compressi in maniera rilevante. La pressione fiscale è calata lo scorso anno, dal 44,8% al 44,3%, e quest'anno dovrebbe scendere ulteriormente; tuttavia nel 1997, considerando quello che noi come cittadini abbiamo pagato in oneri contributivi e quello che le imprese pagano in oneri sociali, si è raggiunto il picco di quasi il 45% di imposte dirette e indirette proprio per l'esigenza di rispettare i parametri di Maastricht, e di entrare nella Moneta Unica.
L'anno scorso siamo riusciti a tornare un po' indietro, esattamente al 43,6%, secondo le cifre ufficiali che il Ministro Ciampi ha presentato nella relazione generale appena approvata alcune settimane fa dal Consiglio dei Ministri.
Tuttavia non vi è dubbio che negli ultimi dieci anni quella che ho chiamato pressione fiscale - altro non è che la quota di imposte e contributi in percentuale del reddito nazionale - è cresciuta in maniera molto forte ed è cresciuto quindi il peso, il carico fiscale per le famiglie e le imprese. Quanto sopra ha tre conseguenze rilevanti. La prima è che se il cittadino non ha soldi in tasca non può spendere: una considerazione di per sé banale, ma importante. La seconda è che anche un eventuale aumento di disponibilità, come quello registrato nel corso del '98, non porta ad un'immediata ripresa dei consumi da parte dei cittadini perché all'inizio prevale la prudenza ed anche perché il "fattore aspettative" è cruciale dal punto di vista delle decisioni economiche da adottare da parte di un'impresa ma anche di una famiglia e di una singola persona.
Se si avesse la certezza che l'orizzonte del reddito disponibile, al netto delle imposte, fosse in via di miglioramento, probabilmente molti di noi potrebbero anche esporsi, decidendo di comprare un'abitazione ed approfittando dei mutui al 5%, tuttavia probabilmente le nostre famiglie, scottate dall'esperienza degli ultimi anni, caratterizzati da una pressione molto forte sui redditi e da un aumento consistente della pressione fiscale, mostrano un attimo di cautela. A tutto ciò va aggiunta l'incertezza causata dalla guerra nel Kossovo e tutte le mille altre incertezze che generano una situazione di grande prudenza sul piano delle spese per consumi.

C'è poi una terza conseguenza: l'Italia è ormai "stracompetitiva" rispetto agli altri Paesi per quanto concerne i nuovi investimenti da parte delle imprese. Quanto detto non è solo affermato dal Governo, ma è anche certificato da società di consulenza internazionali. In proposito va considerato il vasto e complesso sistema di incentivi agli investimenti che esiste in Italia, la famosa legge 488, che offre vantaggi alle imprese sul piano fiscale. Oggi la tassazione su un nuovo investimento in Italia è ai livelli degli altri maggiori Paesi europei, anzi in molti casi è a livello più basso: una impresa italiana che decide di investire 500 milioni in un nuovo impianto paga mediamente sulla spesa di questo nuovo impianto un'aliquota inferiore al 18-17,5% una percentuale sostanzialmente equiparabile a quella di altri Paesi.
Sul piano della pressione fiscale in ambito europeo si prende in considerazione l'intero reddito nazionale di ciascun Paese che viene raffrontato al totale delle entrate finanziarie al netto degli introiti per le lotterie.
Secondo questo indicatore concernente la pressione fiscale, l'Italia si trova all'8°-9° posto in Europa; quindici Paesi, fra cui la Francia e la Danimarca, si trovano sopra al 50%, di pressione fiscale, ma a tale dato sicuramente corrispondono maggiori servizi ed efficienza. Tuttavia, su un piano puramente quantitativo, stiamo risalendo progressivamente e faticosamente la china, e credo che nel documento di Programmazione Economica Finanziaria di prossima discussione ed approvazione da parte del Governo si farà uno sforzo per progredire ulteriormente in quella direzione.
Per quanto concerne i nuovi investimenti da parte delle imprese, si può osservare che attualmente la tassazione sui nuovi investimenti è diventata straordinariamente conveniente. Le agevolazioni riguardano sostanzialmente gli investimenti in nuovi beni strumentali, in nuovi impianti e fra l'altro - dopo richieste molto pressanti da parte degli imprenditori e delle associazioni dei costruttori - riguardano ad esempio anche i capannoni nei quali si collocano i nuovi impianti.
Per quanto concerne la competitività delle imprese italiane è fondamentale che queste imparino a fare a meno di forme di assistenzialismo statuale, adattandosi ad un ambiente più rigido quale è quello dell'EURO, laddove in passato la svalutazione costituiva un "balsamo" cui ricorrere in momenti di crisi.
è pertanto necessario che l'impresa italiana si mostri capace di recepire le innovazioni e di anticiparle in alcuni casi. Qualche caso felice c'è in questo Paese straordinario per creatività e vivacità, si pensi solo che a Mirandola, vicino a Modena, è stata impiantata da alcuni anni una fabbrica di apparecchiature ad altissima tecnologia sanitaria (merito di un operaio proveniente dalla Germania) che rappresenta il maggiore distretto mondiale di queste apparecchiature di altissima precisione, estremamente delicate, che vengono spedite negli ospedali di tutto il mondo.
Il nostro è un Paese che ha risorse e capacità naturali, incredibili, basti pensare che in questo periodo difficile che stiamo analizzando, per quanto concerne la crescita nel Meridione, negli ultimi tre anni il saldo delle imprese di nuova costituzione è largamente superiore rispetto a quello delle imprese che fisiologicamente muoiono: ancora un esempio della vivacità imprenditoriale del nostro Paese. In tale panorama il fenomeno "dell'assistenzialismo" rappresenta una degenerazione che pone, tra l'altro, un problema di illegalità. Spesso, infatti, a questi investimenti è legata l'erogazione di incentivi od altro, ed il Ministero dell'Industria, che gestisce la legge 488, vigila con grande attenzione sull'effettivo utilizzo dei soldi pubblici perché, purtroppo, si sono verificati anche episodi di natura illecita e si registra, rispetto al complesso degli incentivi concessi, un 20% di revoche che in parte sono dovute a ridimensionamenti dei progetti di investimento da parte degli stessi imprenditori, in parte alla mancanza di certezza riguardo all'utilizzo di quei contributi pubblici.
Questo fattore della insufficiente crescita, comporta, come già detto, il problema della mancanza di disponibilità liquide, un problema di incertezza nelle aspettative e quindi di freno alle decisioni di investimento. Il terzo fattore, che forse è quello essenziale è che le imprese investono se esistono condizioni di convenienza, sul piano dei costi - costo del lavoro e costo del credito - ma investono anche se le loro aspettative e le loro attese sulla crescita del mercato in generale, in particolare per i loro prodotti, è tale da giustificare l'investimento stesso. Ossia un'impresa investe perché è conveniente investire in senso astratto, se è convinta che un ampliamento dell'impianto oppure una spesa per un impianto più efficiente che porti ad un prodotto di qualità migliore, costituisca la premessa di una maggiore probabilità di vendita dei beni che essa produce. Questa osservazione può sembrare banale e sicuramente lo è perché in realtà l'economia è molto banale. La complessità del problema nasce dal
fatto che questa considerazione di fondo "investo per vendere di più" e quindi per guadagnare di più è un assunto che innesca un processo di analisi e di verifica delle aspettative assai complesso e assai diversificato a seconda dei settori di mercato. E' un discorso anche di imprenditoria e quindi di persone: c'è chi è più avverso al rischio, c'è chi è meno avverso al rischio, e quindi è maggiormente disposto ad investire anche in condizioni di domanda stagnante e chi invece aspetta segnali più evidenti di crescita da parte del mercato.
Tornando al paragone tra economia italiana ed economia americana, un imprenditore americano che investe oggi o che investiva due anni fa sapeva di avere di fronte l'orizzonte di un'economia che cresceva del 4% l'anno, in cui quindi c'era la possibilità di collocare i propri beni sul mercato e non rischiava al buio. Ben inteso stiamo parlando di attività nella quale il rischio è una componente fondamentale ed ineliminabile, tuttavia un conto è investire in un'economia che si sa crescere dal 4 al 5% l'anno, un conto è investire in un'economia che cresce all'1%. In questo momento in Italia, l'imprenditore è cosciente del fatto che tra stipendi, salari, ed altre componenti della domanda, questa crescita molto forte non c'è.
Se noi fossimo in condizioni di ridurre drasticamente le tasse, saremmo in grado di risolvere questo problema; d'altra parte, purtroppo, il nostro Paese si trascina dietro un passato fiscale di assoluta follia, in cui le finanze pubbliche sono state prese a calci in dispregio di qualunque criterio di rigore. Si tratta di un peso che ci trascineremo per anni perché alle spalle abbiamo questo ghiacciaio, che potrebbe sciogliersi nuovamente in qualsiasi momento, di 2 milioni e 400.000 miliardi di lire di debito.
Se per nostra disgrazia i tassi di interesse riprendessero a salire e se gli oneri degli interessi passivi sul bilancio pubblico riaumentassero, saremmo di nuovo in una situazione drammatica dal punto di vista finanziario. Per questo motivo la stabilizzazione in corso è così importante ed il pericolo che questo ghiacciaio partorisca delle valanghe che possano travolgere la nostra economia, ovviamente allontana il consolidamento della stabilità economica.
Al momento, in Italia siamo in una situazione in cui non possiamo permetterci di aumentare neanche il livello del gas, non lo possiamo fare per gli errori accumulati in passato non solo da parte di chi governava, ma da parte del Paese nel suo complesso considerato che nell'85/86 c'era un sostanziale consenso su questa politica, ad eccezione di qualche vox clamans, come Modigliani od altri, ed è per questo che io parlo di follia generale.
In Italia si parla ora di avvenuto risanamento, di tassi di interesse scesi, al pari di quanto è avvenuto negli Stati Uniti.
Vorrei tuttavia ricordare che gli USA, che qualche anno fa contavano un forte disavanzo pubblico, attualmente non solo sono riusciti ad azzerarlo ma addirittura hanno un avanzo di bilancio, e discutono per come dividere l'avanzo, se incamerare questi risparmi per garantire nel modo migliore il loro sistema pensionistico oppure se è il caso di diminuire le tasse subito. Il motivo per cui negli Stati Uniti ha funzionato quel sistema, cioè restrizione fiscale e bassi tassi di interesse, e da noi funziona meno è che in quel Paese l'economia che funziona mediante il credito è assai più diffusa che nel nostro.
In pratica gli americani quasi non risparmiano, mentre in Italia si risparmia ancora tantissimo ed il Paese mette da parte un'ampia quota del reddito nazionale, ciò che lo rende così appetibile dalle Banche straniere. A livello internazionale la nostra fonte di risparmi è seconda solo a quella del Giappone e qualche volta veniamo superati dalla Germania, ma nel complesso siamo tra i Paesi più "risparmiatori" dell'intero globo.
Dal punto di vista degli impulsi per vivacizzare l'economia questo significa che mentre negli Stati Uniti il calo dei tassi di interesse (dal 7 al 3%) ha determinato un'impennata, da noi ciò accade in misura assai più limitata.
Abbiamo visto molto succintamente quali sono le principali cause di carattere macroeconomico alla base di questo sviluppo insufficiente; ora, arrivando meglio al bersaglio che dobbiamo colpire, risulta chiaro che con una crescita così bassa non abbiamo grosse speranze di riassorbire la disoccupazione che ci affligge.
L'anno scorso è avvenuto una specie di miracolo, siamo cresciuti del solo 1,3%, mentre i posti di lavoro sono aumentati di oltre 100.000 unità. Tuttavia, analizzando i dati nel dettaglio, si scopre che queste nuove assunzioni avvengono tutte nella parte flessibile del mercato del lavoro, con contratti part-time od a tempo determinato e ciò è un indicatore che il Paese, da questo punto di vista, ha un grosso potenziale di vivacità occupazionale.
Per stimolare l'occupazione, d'altra parte, è necessaria una crescita più intensa poiché non è pensabile poter assorbire i quasi tre milioni di disoccupati con un tasso di crescita pari all'1,3%. Dal punto di vista dell'analisi, è molto importante osservare l'andamento di alcuni indicatori economici per capire i trend di breve e lungo periodo.
Un PIL che cresce in maniera insufficiente, per l'analista può essere un segnale che i problemi di disoccupazione, di povertà e di scarsa integrazione sociale sicuramente non verranno aggrediti nel breve termine.
Siamo quindi in presenza di indicatori economici anche abbastanza semplici, molto grezzi, che possono essere molto utili.
Quando aprite una pagina di giornale e leggete che la fiducia dei consumatori è in calo, che gli ordinativi delle imprese per i prossimi mesi sono destinati a decrescere, si tratta di indicatori di breve termine, riferiti cioè ad un orizzonte temporale abbastanza limitato. Tuttavia tali indicatori possono risultare utili ad anticipare indicatori più ampi e sintetici, quali il PIL, e quindi possono consentire di anticipare la permanenza o meno di fasce di elevata disoccupazione. Pertanto l'informazione economica, quella più sintetica, quella basata sugli indicatori economici fondamentali - dal PIL al tasso di disoccupazione, al tasso di investimenti - rappresenta informazioni preziose la cui gestione tecnica risulta anche abbastanza semplice.
Parlando di disoccupazione, di povertà, è importante evidenziare un aspetto più strutturale del problema, il divario tra Nord e Sud. Si tratta di un fenomeno che affonda le sue radici nel passato e comporta una minore diffusione della cultura d'impresa al Sud rispetto al Centro-Nord, anche se recentemente ci sono segnali confortanti di un'imprenditoria più vivace.
In proposito posso citare il prestito d'onore, un'iniziativa di stimolo all'imprenditoria giovanile che ha avuto buon esito, e la stessa legge sull'imprenditoria giovanile che negli ultimi anni ha dato buoni risultati. Tuttavia, non vi è dubbio che una fetta consistente del Paese si trascini da un lungo periodo di tempo in una serie di problemi di carattere strutturale, che sono diventati quasi una parte costituente della vita economica di queste aree stesse.
Un problema di rilievo del mercato del lavoro nel nostro Paese è in generale quello di un basso tasso di attività.
Il tasso di attività è importante perché ci fa conoscere la consistenza di quella fetta del Paese che in qualche maniera è legata ad una attività economica, ossia all'occupazione o alla ricerca di un'occupazione. Si tratta di un dato importante, che offre una indicazione molto forte sull'attitudine complessiva del Paese a rispondere ad un bisogno di occupazione.
Altra cosa è il tasso di disoccupazione, che evidenzia quale sia la quota di persone in cerca di lavoro all'interno della cosiddetta forza-lavoro, un aggregato costituito dalla somma di occupati e disoccupati.
È importante conoscere il tasso di disoccupazione ed il tasso di attività di un Paese. Se voi fate un banalissimo confronto internazionale scoprirete ad esempio che la Gran Bretagna, che ha 25 milioni di occupati in rapporto ad una popolazione simile alla nostra e con un trend in atto di forte crescita economica, ha un tasso di disoccupazione più alto in questa fase rispetto a quello dell'Italia dove vi sono 20 milioni di occupati.
Tuttavia la differenza tra i due Paesi è che in Gran Bretagna lavorano più persone, cioè potremo essere in una situazione in cui il tasso di disoccupazione è identico tra i due Paesi, il 10 % supponiamo, ma in quel caso noi avremo 24 milioni di inglesi e venti milioni e mezzo di italiani che lavorano, cioè in buona sostanza il sistema inglese offre complessivamente più opportunità di lavoro, mentre quello italiano offre tale opportunità a meno persone.
La disoccupazione, infatti, viene calcolata sulla base del numero di persone che cercano effettivamente lavoro e non lo trovano perché il sistema non è in grado di offrire un'adeguata disponibilità di posti di lavoro.
Questi dati naturalmente vanno analizzati nell'ambito di un sistema pur complesso, per verificare se siano sintomo di maggiore o minore fragilità.
Ad esempio il fatto che la componente femminile stia a casa e che quindi magari la famiglia riceva un'attenzione maggiore perché un genitore è sempre presente, può essere giudicato un fattore di coesione sociale, che porta ad una maggiore educazione dei figli e quindi garantisce famiglie più coese e più solide. Occorre quindi chiedersi se in questo caso il sistema sia complessivamente più sotto controllo oppure l'avere un solo reddito in famiglia conduca ad una situazione di maggiore fragilità, di maggiore permeabilità perché quella famiglia ha bisogni economici più pressanti.
Non è facile rispondere a queste domande ed io stesso non sono in grado di darvi una risposta sic et simpliciter, però è indubbio che nel nostro Paese ci troviamo di fronte al fenomeno di una quota di popolazione che non lavora assai più elevata che in altri Paesi. Sicuramente si tratta di persone che non hanno un lavoro anche perché non lo cercano; non vi è dubbio che il fenomeno è in grado di modificare la struttura stessa della famiglia.
In tale contesto si inserisce il problema dell'economia sommersa, che può essere considerata una patologia del sistema, in quanto non è in grado di offrire posti di lavoro veri, garantiti, con regolare contribuzione assicurativa e previdenziale, con un rapporto trasparente tra l'assunto e l'imprenditore.
L'economia sommersa rappresenta un comodo rifugio nella soluzione della cosiddetta economia informale, che poi spesso è illegale per definizione, ma che confina con forme a volte drammatiche di criminalità.
Per chiarire ancora meglio alcune caratteristiche del nostro mercato del lavoro è importante considerare che se anche nel nostro Paese c'è una quota elevata di persone che non lavorano e non chiedono un lavoro, ciò non riduce la drammaticità del problema della disoccupazione; se molti non cercano un lavoro evidentemente hanno meno impellenza di trovare un'occupazione e quindi di essere garantiti da un reddito, però ciò dimostra che il sistema non è in grado di generare lo stesso numero di posti di lavoro di altri Paesi.
Il problema è assai complesso ed il tasso di attività basso che caratterizza il nostro Paese rappresenta, a mio avviso, comunque un problema, soprattutto per quello che concerne le famiglie mono-reddito che vivono nel Sud.
In conclusione nel nostro Paese abbiamo un basso tasso di attività, cioè il sistema crea un'occupazione, un numero di posti di lavoro, nettamente inferiore a quello di altri Paesi. Abbiamo poi una disoccupazione che al momento è elevata e che sfiora i tre milioni di persone, che è concentrata soprattutto nelle regioni del Meridione e che interessa soprattutto le fasce giovanili e le fasce femminili. Questo significa che eventuali situazioni di tensione che scaturiscono da questa situazione di fragilità del sistema sono concentrate in aree specifiche; da una parte ciò ci consente di monitorarle meglio, ma al tempo stesso, data la drammaticità di alcuni dati, accresce la criticità del problema in quelle specifiche aree.
L'esempio classico è il centro della Sardegna dove il 50% dei giovani si trova senza un lavoro, e dove esiste obiettivamente un problema potenziale che porta a chiedersi come mai non si sia ancora verificata un'esplosione sociale.
Quindi, concentrazione territoriale, concentrazione delle fasce giovanili e concentrazione per sesso.
Una situazione fotografata abbastanza bene dall'ISTAT, che mette a fuoco al Nord ed al Centro-Nord una situazione di occupazione piena, ed al Sud la situazione appena descritta fornendo i parametri della diffusione territoriale e delle suddivisioni dei disoccupati per età e per sesso.
La situazione in parte è compensata dall'economia sommersa sulla quale le valutazioni quantitative sono assai diverse. La Comunità Europea ci dice che noi "nascondiamo", non verifichiamo statisticamente oltre 1/4 del nostro reddito nazionale. In realtà il peso della nostra economia dovrebbe essere aumentato di 1/4 anche per quanto riguarda l'occupazione dato che anche le stime più prudenti ci dicono che noi abbiamo un equivalente di 5 milioni di posti di lavoro nascosti, includendo fra questi sia i doppi lavori che quelli di occupazione nascosta, come le imprese calzaturiere del sommerso napoletano.
Tale economia sommersa in buona parte coincide con l'immigrazione e lì si tratta di capire che abbiamo un'offerta di posti di lavoro molto usuranti che va ad intercettare gli immigrati (ad esempio il 90% delle persone che sono state assunte per la costruzione del nuovo tratto Firenze-Bologna della TAV erano extracomunitari).
Allora qui c'è una modificazione strutturale della nostra forza lavoro: i ragazzi italiani studiano sempre di più ed arrivati a vent'anni non sono disposti a prendere un piccone in mano: una situazione che già abbiamo visto in atto in tanti altri Paesi, come gli Stati Uniti, dove i lavori più umili vengono svolti dalla popolazione messicana, ispanica, caraibica o di colore.


In questo ciclo di lezioni rappresento il CENSIS, fondazione che fa ricerche soprattutto in campo socioeconomico e che costantemente ha l'occhio sui più significativi problemi del Paese.
La fondazione è, nel contempo, un'azienda che si sostiene attraverso i contratti di ricerca che acquisisce sul libero mercato; è infatti nostra caratteristica significante non avere sovvenzione alcuna ed essere, nello stesso tempo, un'istituzione che è impegnata a dare un contributo al Paese, alla consapevolezza che ha di se stesso, offrendo un supporto scientifico alla comprensione dei fenomeni che attengono alla sicurezza di tutti i cittadini.
Nostro compito è scoprire la realtà per come è, non per come appare o per come viene riportata dai media, quindi rimandarla alla considerazione ed al vaglio delle istituzioni, delle forze sociali, del mondo delle imprese.
Il mio compito, in questa iniziativa, è quello di trattare il tema delle tensioni sociali dal punto di vista delle disparità che possono manifestarsi in questo particolare momento storico nella società italiana.
Questa nostra società diventa sempre più a due velocità, i ricchi, è stato detto proprio nel commitment, diventano sempre più ricchi, i poveri diventano sempre più poveri; in proposito vorrei subito spiegare che, a mio avviso, questo modo di ragionare è sbagliato in quanto non possiamo analizzare società complesse senza tenere conto che i fenomeni che appaiono come evidenti sono spesso incomprensibili, non riconducibili a vecchi paradigmi, come, per esempio le classi sociali, la struttura di stratificazione sociale od anche, semplicemente, il rapporto fra i comportamenti delle persone, le condizioni strutturali ed il reddito.
Il primo punto su cui vorrei appuntare la vostra attenzione è il considerare se ancora è possibile leggere la società italiana attraverso uno schema semplificato, che potrei ricondurre a quello delle classi sociali, cioè alle classi sociali di matrice sindacale come il proletariato, i capitalisti, fino alle classi che si caratterizzano dal punto di vista sociologico, come il ceto medio, oppure se occorre oggi ricondursi a classi basate maggiormente su criteri di tipo economico, quali gli alti redditi, i bassi redditi, i medi redditi. In sostanza si tratta di decidere se il modello di lettura tradizionale di una società, ed in particolare della società italiana, è ancora idoneo a coglierne e capirne i comportamenti.
In proposito nutro alcuni dubbi e penso invece che oggi il vero problema sia nel doversi confrontare con una società fortemente frammentata, nella quale gli interessi in gioco non sono più così semplici e non più comunque riconducibili all'assioma "quelli che guadagnano poco si sindacalizzano e cercano di avere più soldi, quelli che sono al vertice della società cercano di essere sempre più corporativi e di mantenere i propri privilegi". Questa lettura per quanto mi riguarda è poco realistica, vedo invece una lettura più difficile di una società molto frammentata, in cui i problemi di tipo individuale e personale pesano molto, di una società che sta diventando multietnica; nella quale componenti estranee cominciano ad integrarsi in una collettività che sostituisce la sicurezza sociale, cioè quella garantita dal sindacato e dai grandi movimenti di massa degli anni '50, '60 e '70, con un tipo di sicurezza individuale.
Una ricerca proprio sul tema della sicurezza, condotta anche con l'apporto del Procuratore Antimafia Vigna, i cui risultati abbiamo presentato recentemente al Senato e sono stati pubblicati dalla stampa, ha fatto emergere che gli italiani hanno paura. Questa paura non è più semplicemente la paura di perdere il lavoro, di non avere abbastanza soldi o delle tasse, che pure certamente continuano ad esserci, bensì è identificabile una paura quasi individuale, dalla quale scaturisce una necessità di sicurezza, che trascende anche dalle condizioni effettive di presunto rischio.
Al riguardo è possibile affermare che non siamo un Paese ad alto tasso di criminalità, basti pensare che la famosa "cura" del sindaco Giuliani ha portato il numero di omicidi che si registrano attualmente a New York al numero medio di omicidi che ci sono oggi in Italia. Nella città americana infatti fino a 5 o 6 anni fa si registravano 3.500 omicidi all'anno, oggi se ne contano 6-700; in Italia avevamo 2000 omicidi nei primi anni '90, quando erano in corso le guerre di criminalità organizzata, mentre oggi siamo sugli 800 omicidi all'anno. In conclusione un Paese come l'Italia, che conta 56 milioni di abitanti, ha lo stesso tasso di criminalità, in termini di omicidi, di una città come New York che ha 10 milioni di abitanti.
Quanto detto significa che questo non è un Paese in cui esci da casa e rischi che ti taglino la gola, eppure il senso di insicurezza, la paura dei cittadini è crescente. Tale elemento, a mio avviso, non può essere più spiegato in termini di grande aggregato sociale, ma va spiegato prendendo in esame problematiche che riguardano più da vicino il singolo.
Premesso quanto sopra tratterò tre diversi aspetti del problema. Il primo è come l'integrazione europea, la globalizzazione, i grandi processi di tipo economico vadano ad impattare e quindi influenzino proprio la tematica della frammentazione del corpo sociale e della individualizzazione dei problemi di tipo sociale. Come secondo aspetto tratterò il tema lavoro che, dal punto di vista sociale, in passato ha costituito una delle principali ragioni di tensione sociale interna. La terza riflessione è proprio sul tema della sicurezza, considerata anche in relazione alla crescente dimensione multietnica che sempre di più caratterizza l'Italia.
Il processo logico che mi fa partire proprio dall'integrazione europea e dalla globalizzazione è la considerazione che i meccanismi ridistributivi di tipo sociale (prima c'erano le classi sociali, adesso c'è la frammentazione) operano come grandi derive, provocando fenomeni di rilievo, che è necessario capire nella loro globalità altrimenti si rischia di non comprendere le reazioni del singolo e le paure che esso nutre. Un primo elemento viene dato proprio dal fatto di aver perso la protezione "fisica" dei confini dello Stato, quando ormai gente di tutti tipi arriva e parte dal Paese. Il secondo elemento è che non godiamo più della protezione dei mercati: in passato, non discuto se ciò sia stato un bene od un male, si avevano maggiori possibilità di sviluppare la produzione anche in ragione del fatto di operare in un territorio protetto, mentre oggi può arrivare chiunque, dalla multinazionale alla piccola impresa, a vendere i suoi prodotti. Il terzo elemento, non secondario, è quello di andare gradatamente verso un'integrazione monetaria i cui effetti secondo qualcuno sarebbero negativi, come già dimostrerebbe il fatto che la nuova moneta è in ribasso rispetto al dollaro e che l'economia europea sta attraversando una fase negativa. Secondo la mia opinione l'ingresso nell'EURO rappresenta un fattore positivo ma deve essere fonte di riflessione.
Dal punto di vista sociale, ma anche sotto il profilo individuale, siamo entrati in una fase in cui appare molto pressante un fattore che colpisce indiscriminatamente tutti, cioè l'aumento di competizione e di competitività.
Si tratta di un problema che non riguarda solo le imprese italiane che esportano meno, e ciò non solo per cause legate all'andamento dell'economia in generale, ma che investe anche le aziende pubbliche che si privatizzano per avere maggiore competitività e le banche che si fondono per diventare più grandi ed acquisire più competitività. In sostanza direi che il problema riguarda tutti noi.
Il sistema "assistenziale", che ha caratterizzato l'Italia per trenta/quarant'anni, ha costituito un ombrello protettivo ma al contempo una piattaforma che ha consentito ad un Paese povero di diventare rapidamente un Paese ricco. Molto probabilmente senza il Welfare State, senza pensioni di invalidità, senza un po' di protezione, senza un po' di svalutazione della lira, noi avremmo avuto notevoli difficoltà. La protezione è tuttavia parte del passato ed il passato, per definizione, non può più essere ritenuto attuale.
L'oggi, invece, ci mette di fronte ad una crescente competitività, ad una competitività che ci coinvolge anche a livello personale. Ad esempio, oggi il sistema pensionistico è in discussione e, se non adottiamo forme di previdenza personale, sarà difficile in futuro ottenere i vecchi favorevoli trattamenti di quiescenza, che ci permettevano di andare a riposo, magari a 52 anni, con un'ottima pensione, talvolta addirittura superiore all'ultimo stipendio percepito.
Nel momento in cui queste situazioni da "bel Paese" spariscono subentra un maggiore coinvolgimento e quindi una maggiore competitività personale che, nel caso esaminato, ci costringe a mettere i soldi da parte, a fare un'assicurazione integrativa, a costituire un fondo pensione e così via.
A chi obietta che si stava meglio prima rispondo che, se questo è vero, allora occorre anche rivalutare la partitocrazia, l'assistenzialismo e tutte quelle forme ad esso assimilabili contro le quali ci siamo battuti. D'altra parte se osserviamo il fenomeno con l'occhio di chi sta sulla luna e vede la terra ci rendiamo subito conto che è il momento di rimboccarsi le maniche perché tutto sta divenendo più difficile.
Torniamo al tema iniziale: sempre più ricchi, sempre più poveri. Il concetto è da riproporre in un altro modo in quanto oggi siamo a rischio di contraddizioni e conflitti sociali che derivano da un processo di maggiore responsabilizzazione individuale e personale. Nessuno protegge più nessuno: oggi siamo sul mercato del lavoro e, se non produciamo risultati, rischiamo di perdere il posto, la posizione e lo stipendio, in altre parole rischiamo di perdere ogni cosa. Tutto questo porta, da un lato, ad una maggiore vitalità e reattività da parte di ciascuno di noi, dall'altro genera anche un trend di tensione, di ansietà collettiva.
Per completare il quadro occorre dire che proprio questo tipo di strutturazione ha fatto perdere competitività ad alcuni ammortizzatori sociali, propri non solo dello Stato assistenziale ma anche del nostro modello di società. Le organizzazioni sociali sono fatte anche di ammortizzatori, quali ad esempio le rappresentanze che organizzano le persone e corrispondono a ben individuabili interessi sociali; si tratta dei cosiddetti corpi intermedi, che si pongono fra il singolo cittadino ed i suoi bisogni, da una parte, e lo Stato che deve garantire collettivamente la dimensione più generale dei bisogni, dall'altra. In passato esistevano corpi intermedi ben individuabili, quali il sindacato, che organizzava gli interessi dei lavoratori, e le organizzazioni di imprenditori, che raggruppavano il mondo delle imprese. Oggi abbiamo corpi intermedi che detengono un potere certamente maggiore rispetto a quanto avveniva negli ultimi 10 anni e che hanno continuato a produrre "Patti di Natale", che pure hanno dato i loro frutti, fra cui la sconfitta dell'inflazione e l'ingresso del nostro Paese nell'EURO. Se prendete in esame l'ultimo Patto, la cui verifica è stata realizzata qualche tempo fa al CNEL, vi accorgerete che da parte sindacale ci sono ben 52 firmatari: come dire tanta trasparenza, nessuna trasparenza. Tuttavia non si sa più se questi organismi intermedi rappresentino interessi aggregati o forme di gestione del potere, non si sa più che cosa in effetti essi siano.
I partiti, ad esempio, hanno avuto un decremento rilevante, non sono più organizzazioni di rappresentanza ma sono organizzazioni di opinione. Il nostro panorama politico conta più di un partito il cui nome corrisponde a quello del rispettivo leader, ciò che ricorda i vecchi negozi di un tempo, che utilizzavano il nome del titolare come insegna.
La perdita di ruolo degli organismi intermedi, la cui funzione è oggi più di potere che non di legittimazione dal basso degli interessi emergenti, ha determinato un fatto certamente importante ossia la mancanza, a fronte di una crescita della competizione, di chi effettivamente organizzi questa società frammentata e riesca a canalizzarne i bisogni verso le istituzioni.
Oggi abbiamo un sindacato dei lavoratori che ha la funzione di difendere i non lavoratori cioè i pensionati perché, nella sostanza, la sua base associativa maggioritaria è fatta di pensionati e quindi l'unica battaglia condotta recentemente con successo è stata indirizzata a difesa delle pensioni, laddove il Sindacato non ha ceduto, mentre di fatto sono passati concetti come quello della flessibilità ed è per lo più tollerato che, nel Mezzogiorno, si possa pagare un dipendente anche meno di quanto stabiliscono i contratti sindacali.
Non vorrei essere frainteso, non ho pregiudizi politici, intendo solo fare delle constatazioni che, come tali, possono essere contestate ma non inserite in un pensiero di destra, di centro o di sinistra.
La battaglia, durissima, delle pensioni ha una logica di tipo autoconservativo e comporta una iper-responsabilizzazione del sindacato su un tema che, a ben guardare, appare lontano dalla responsabilità di rappresentazione dei lavoratori intesi nell'accezione di forza lavoro attuale.
Un secondo punto sul quale vorrei attirare l'attenzione è che oggi stentiamo a riconoscere i meccanismi cosiddetti ridistributivi, ovvero in presenza di una competizione crescente abbinata ad una minore protezione sociale è difficile obiettivamente aiutare le fasce sociali più deboli. La conseguenza potrebbe essere che da queste fasce sociali potrebbero scaturire tensioni e spinte destabilizzanti per il nostro Paese.
La crisi del meccanismo ridistributivo del Welfare ha determinato una concomitante crisi delle politiche sociali proprio perché, ora apparirà chiaro per quale motivo ho fatto prima cenno all'integrazione europea ed alla Moneta Unica, le politiche sociali sono state vittima illustre di tagli di bilancio sostanzialmente indirizzati verso gli investimenti, le infrastrutture ed appunto lo stato sociale. Coloro i quali criticano questa politica economica fanno rilevare che, mentre siamo stati costretti ad attuare i necessari tagli di bilancio, non siamo stati capaci di inventare meccanismi di tipo diverso, comunque atti a proteggere le politiche sociali.
Si sta oggi ricostruendo un sistema di Welfare che poggia le sue fondamenta su due grandi strumenti: il primo è il cosiddetto mint-testing - ovvero redditometro, riccometro - o meglio ancora il means-testing, strumento che preferisco perché consente di ridistribuire l'accesso ai servizi pubblici ed alle prestazioni sociali in funzione non tanto del reddito propriamente detto, bensì in funzione appunto dei means ossia dei mezzi, che vengono testati mediante un test sulle effettive capacità di spesa di ogni famiglia.
Il principio è quello di individuare non tanto quanto ciascuno guadagna, bensì quale patrimonio ciascuno esprime. Avremo quindi tanta gente che paga i servizi e poca gente che riesce a fruirne. L'effetto del test potrebbe essere che, ad esempio, chi ha una casa può pagare le ricette, chi possiede BOT o CCT non ha diritto a sconti sulle spese scolastiche e così via. Le tasse però le paghiamo tutti e questa situazione potrebbe portare ad apprezzabili tensioni sociali, in quanto il cittadino potrebbe reagire e chiedere di avere una tassazione ridotta, rinunciando alla Sanità pubblica, perché non si può da una parte pagare un contributo nazionale per la Sanità e dall'altra essere costretti a pagare le ASL quando si ha bisogno di fruire di questo servizio. La gente ha ormai una sua capacità di dimensionare le spese e quindi, considerando il rapporto costi-benefici, non è più indotta a gioire se il fisco promette uno sconto minimo sulle imposte da pagare ogni anno.
Il secondo strumento cui intendo far riferimento è il reddito minimo di inserimento che, a mio avviso - e lo dico con molta chiarezza -, costituisce una vera e propria follia sociologica. In sostanza i cittadini italiani maggiori di età otterrebbero un sostentamento pubblico qualora non riuscissero a raggiungere un reddito minimo, così come già avviene in molti Paesi europei. Personalmente ritengo questo un mezzo culturalmente sbagliato per affrontare il problema e sono decisamente più favorevole a tutte le forme di promozione della formazione, dell'inserimento lavorativo ed infine di incoraggiamento all'imprenditorialità.
Alcuni comuni italiani hanno iniziato a sperimentare queste forme di integrazione fissando il reddito minimo a 500.000 lire al mese; in pratica se una persona ha un reddito di 100.000 lire mensili ed una pensione di invalidità di 200.000 lire mensili potrebbe ricevere un'integrazione di altre 200.000 lire. Posto che su questi livelli non si arriva a garantire neppure la sopravvivenza, ritengo che a questo punto, volendo parlare di forme assistenziali, sarebbe preferibile tornare al principio di elargire false pensioni di invalidità che arrivavano a garantire un reddito di circa Lit. 1.500.000 al mese: al limite della sopravvivenza ma dentro la sopravvivenza.
Grossi problemi di stabilità sociale potrebbero, d'altra parte, sorgere proprio in relazione ai due strumenti sopradescritti, previsti dall'attuale politica economica, in quanto da un lato avremmo gran parte delle famiglie italiane costrette a pagare senza avere più un corrispettivo in prestazioni - di fatto un vero e proprio razionamento dello stato sociale - dall'altra avremmo questo miraggio di un sostentamento sia pur minimo garantito dallo Stato, creando un'aspettativa che rischia però di far nascere - questo è un fenomeno tipico del nostro Paese - una categoria necessariamente insoddisfatta, quella dei fruitori del reddito minimo di inserimento.
A mio parere il problema grosso dei meccanismi ridistributivi riguarda proprio le pensioni ed in relazione a ciò, per rendersi meglio conto del problema, è bene esaminare qualche dato.
Nel 1998 le pensioni in Italia hanno pesato sul Pil in ragione del 15,8%, a differenza degli altri Paesi europei dove l'incidenza (pensioni/Pil) è stata decisamente più bassa, raggiungendo al massimo un valore del 12%. Considerando poi che la spesa pensionistica assorbe di fatto il 71% della spesa sociale, è consequenziale che in questo dato vadano ricercati i motivi del razionamento della sanità, dell'assistenza e di tutte le altre spese sociali.
Bastino in proposito alcuni dati: in Italia il 34,4% dei pensionati ha meno di 65 anni ed il 3% - si tratta di qualche milione di persone - ha meno di 40 anni. Chiaramente il sistema pensionistico è figlio di una dialettica politica, di una dialettica sociale, ma non di una allocazione razionale delle risorse.
È stato detto ultimamente, in risposta a studi condotti sulle pensioni dall'Istituto che rappresento, che "il CENSIS attacca i lavoratori", ma se vogliamo tratteggiare uno scenario futuro su questo problema tenendo conto delle proiezioni di spesa (attualmente, come già detto, la spesa pensionistica rappresenta il 15,8% del Pil) si può facilmente osservare che, secondo il parere espresso dallo stesso Ministero del Tesoro e da alcuni Istituti di ricerca, la spesa pensionistica sarà nettamente raddoppiata nel 2020.
Più che costruire uno scenario di previsione si tratta di fare proprio il "conto della serva": se la spesa pensionistica è destinata a raddoppiare ciò vuol dire che, per mantenere l'attuale rapporto in cui questa rappresenta il 15,8% del Pil - valore di per sé già altissimo - il Pil dovrà aumentare del 5% all'anno. È matematicamente sicuro infatti che se in una frazione si vuole mantenere lo stesso rapporto tra numeratore e denominatore questi due valori devono crescere nella stessa misura. L'Italia, dunque, per i prossimi 20 anni dovrebbe crescere del 5% all'anno, cosa assai improbabile posto che riteniamo già di essere fortunati questo anno con una previsione di crescita del Pil dell'1,2-1,3%.
Sullo sfondo di questo scenario vedo una "bomba finanziaria" che ha le stesse dimensioni di quella che già si intravedeva negli anni '80, quando nessuno si era accorto che si stava accumulando un debito pubblico che oggi è il 120% del Pil. La differenza tra ieri e oggi è che negli anni '80 non avevamo un debito pubblico come quello attuale che, malgrado sia obiettivamente stato ridotto e contenuto dalle manovre finanziarie, è veramente ingente.
Se le pensioni sottrarranno sino a questo punto le risorse, le giovani generazioni, inserite in famiglie già sotto stress e costrette a sostenere un peso enorme per questioni sociali di cui la collettività dovrebbe molto più farsi carico, avranno grosse difficoltà di inserimento nella società. I giovani inoltre si trovano penalizzati da un sistema universitario che si dimostra poco produttivo in quanto il ciclo di studi si conclude quando lo studente ha 27-28 anni, mentre in altri Paesi, quali la Francia, la Spagna ed il Regno Unito, gli studi vengono conclusi fra i 21 ed i 23 anni. Ne consegue che il 68% dei giovani italiani con meno di 30 anni vive alle spalle della famiglia. Una famiglia decide di non avere figli proprio perché deve pensare che praticamente non avrà mai pace: quando si è giovani si deve pensare alla pensione, poi si deve pensare ai figli, fino ai loro 30 anni ed a questo punto ci si deve occupare dei genitori. Questa generazione, che noi abbiamo definito "generazione sandwich", non riesce a capire quando è il suo turno di godersi la propria vita.
Oggi 500.000 famiglie italiane hanno il problema di avere un parente con l'Alzheimer, una malattia invalidante che rappresenta solo una parte del problema handicap, con tutte le conseguenze soprattutto a carattere finanziario che tali realtà comportano per le famiglie. Attualmente la vera povertà è frutto di realtà come questa e perciò non sono d'accordo con chi parla di poveri/ricchi: oggi si può guadagnare anche 5 milioni di lire al mese, ma se si ha un genitore disabile si pongono problemi di enorme spessore.
Come già detto il 71% della spesa sociale riguarda le pensioni, questo certamente comporta un benefico effetto per quanto riguarda il circuito dei consumi perché i pensionati fanno la loro parte come consumatori, ciononostante non riesco a comprendere le battaglie sull'indicizzazione delle pensioni medio-alte. Penso inoltre che il mondo pensionistico vada urgentemente riordinato anche perché all'interno del settore esistono forti sperequazioni con pensionati, che magari hanno lavorato 15 anni, che percepiscono una miseria ogni mese, ed altri che, non riesco a capire il perché, percepiscono super pensioni.
Come prima conclusione ritengo quindi che le pensioni sociali derivino da una cattiva politica ridistributiva che in questo momento si pone a fronte di una crescente e sempre maggiore tensione competitiva.
Il secondo punto da considerare è quello del settore del lavoro che pone preoccupazioni di varia natura, molto meno banali dell'equazione "disoccupazione = possibile crisi dell'ordine pubblico". Il vero problema è da ricercarsi nell'esistenza di un tasso di disoccupazione molto alto, tuttavia è importante accertare se si tratti di un dato reale. Le pubblicazioni ISTAT parlano giustamente di un tasso di disoccupazione che raggiunge il 12,1% delle forze di lavoro; ma ove esaminiamo il dato dal punto di vista dei possibili fattori di tensione sociale è chiaro che non possiamo prescindere dal distinguere fra situazioni diverse. Ad esempio una cosa è un giovane disoccupato che vive in casa ed una cosa è un disoccupato che è anche un capofamiglia: nel primo caso affrontiamo un problema sociale, nell'altro un caso disperato. Il protagonista del primo potrebbe addirittura essere un tipo che si approfitta della situazione crogiolandosi nell'essere "coperto" dai genitori, mentre il secondo potrebbe finire per compiere un omicidio per la camorra in cambio di 1 milione al mese.
Da questo punto di vista il 15% delle famiglie italiane, ossia 3 milioni e 200.000 famiglie, dichiara di avere un problema di lavoro; ci sono 2 milioni e 600.000 disoccupati, ma 3 milioni e 200.000 famiglie dichiarano di avere un forte problema di lavoro. La metà circa, 1 milione 400.000 famiglie italiane, ha un problema di lavoro perché c'è un componente, generalmente il coniuge od il figlio, che ha un problema di lavoro. Il dato esprime una situazione più drammatica se si considera il fatto che gli esclusi dal lavoro si concentrano nel Mezzogiorno e che si tratta soprattutto di giovani e donne, anche se per questo gruppo la famiglia può fungere da ammortizzatore sociale.
L'altro milione e mezzo circa di famiglie si può suddividere in tre sottogruppi. Il primo conta 700.000 nuclei familiari nell'ambito dei quali nessuno lavora e dove l'unico reddito è spesso rappresentato da una pensione: a mio parere queste famiglie a rischio di disperazione che hanno un reddito inferiore al milione al mese, per lo più un reddito di assistenza di varia natura, costituiscono una bomba. Nel secondo sottogruppo si possono collocare 450.000 famiglie che hanno un componente che sostanzialmente è occupato nel sommerso. Nel terzo sottogruppo si collocano 650.000 famiglie numerose, all'interno delle quali vi è un solo componente che lavora in modo sicuro ma il cui salario risulta comunque insufficiente a garantire il reddito della famiglia. Questa categoria non compare nelle statistiche perché il capofamiglia non è un disoccupato, anche se la famiglia ha un problema serio di lavoro, in quanto la moglie non lavora, ci sono più figli e lo stipendio percepito, per esempio di impiegato comunale, si aggira intorno a 1.600.000 lire al mese.
Per quanto concerne il lavoro, una chiave di lettura che credo nuova, forse mai portata all'attenzione, è che oggi sta fortemente crescendo e diventando sempre più aderente alla realtà il concetto di occupazione flessibile o precaria.
Naturalmente esiste nel settore una grande diversità di comportamento. In Italia abbiamo delle famiglie ricchissime, nelle quali lavorano tre o quattro persone, le cosiddette famiglie multi-lavoro, nelle quali il reddito si concentra. Molti anni fa le abbiamo chiamate "famiglie S.p.A." perché sono come un'impresa. In Emilia Romagna, la prima Regione sotto questo punto di vista, il 61% delle famiglie ha più di due componenti che lavorano, nelle Marche il valore scende al 54%, per arrivare al 51% nel Trentino Alto Adige. Non è il mitico Nord-Est, né la tradizionale Lombardia: le Regioni dove la struttura familiare e la struttura lavoro sono maggiormente concentrate sono appunto Emilia, Marche e Trentino Alto Adige. La media italiana si attesta intorno al 44%, un valore abbastanza alto se si considera che le tre Regioni dove si registra il minor numero di famiglie di questo tipo sono la Calabria, la Campania e la Sicilia.
Il dato prende in considerazione naturalmente i lavori regolari, tuttavia non bisogna dimenticare che qui si è in presenza di due fattori fondamentali, il primo dei quali è l'aumento straordinario del lavoro sommerso riguardo al quale si è passati nell'arco di tre anni (dal '96 al '99) da 3.800.000 lavoratori sommersi a 5.300.000. Questo valore, chiaramente, deriva da una stima che abbiamo ripetuto con la stessa metodologia negli anni: può darsi che i numeri esatti non siano quelli indicati ma l'aumento tendenziale è sicuramente reale.
Il sommerso è presente molto più nei servizi che nell'industria; certamente le industrie dell'abbigliamento e della calzatura portano con sé una forte area di lavoro sommerso, ma il grosso del sommerso è presente nei servizi domestici, nei pubblici esercizi, nell'edilizia, ecc. Nel lavoro sono presenti tanti mondi e, per esempio, una parte di questi lavoratori sommersi sono casalinghe, donne che lavorano in vario modo e sono considerate fuori dalle forze lavoro, non solo non compaiono nel tasso di disoccupazione ma non compaiono neanche nel tasso di attività. Questi lavoratori del sommerso sono all'incirca un milione ma, anche qualora uscissero allo scoperto, non potrebbero far scendere il tasso di disoccupazione, perché si tratta di occupati in lavori per lo più temporanei.
Si tratta di un mondo abbastanza magmatico: se nel Mezzogiorno ci fosse realmente un tasso del 20% di completa disoccupazione ci sarebbero seri problemi di stabilità sociale, mentre con un buon margine di approssimazione il tasso reale dovrebbe attestarsi intorno al 10-11%. Tuttavia questa "riduzione" non può farci affermare che questa gente stia bene, che sia garantita, che guadagni tanto. Questa gente guadagna non più di 800.000/1.000.000 di lire al mese e non si vuole spostare al Nord dove forse potrebbe trovare un lavoro meglio retribuito ma con un costo della vita sicuramente superiore. In definitiva è per loro più conveniente guadagnare 800.000 lire in nero.
In tal senso non reputo irrazionale che la gente del Sud non voglia trasferirsi al Nord e, d'altronde, non è neppure conveniente attrarre forze lavoro ed alzare i costi di produzione di imprese come quelle, per lo più piccole e medie, che si trovano nel Settentrione del Paese, che si caratterizzano per una produttività relativamente bassa e quindi si trovano nell'impossibilità di alzare il costo del lavoro più di tanto.
Possono sembrare considerazioni semplicistiche, ma anche teorie che io ritengo di una certa utilità partono poi da evidenze relativamente banali. Nel corso di un Convegno sull'impatto dell'EURO, uno dei più grossi professori di analisi finanziaria americani ha fatto un'analisi sulla debolezza dell'EURO rispetto al dollaro partendo da un principio semplice. In sostanza egli ha spiegato che un messicano per comprare yen oggi compra prima dollari e poi li converte in yen perché ritiene più conveniente pagare due commissioni piuttosto che il cambio diretto pesos-yen ed ha concluso che quando l'EURO diventerà così allora sarà veramente una Moneta Unica.
La seconda questione da esaminare è connessa ad un aumento delle forme di flessibilità del lavoro: i lavoratori autonomi, quali artigiani, commercianti eccetera, sono oggi decisamente aumentati e costituiscono il 25% degli occupati a fronte di una media europea del 15%. Relativamente basse sono invece tutte quelle forme di flessibilità del lavoro quale il tempo parziale (part-time), dove il 6,6% di lavoratori italiani si confronta al 16,4% della media europea, un dato quasi tre volte superiore. I lavoratori a tempo determinato sono invece il 7,5 % in Italia contro il 12% di media europea.
Il tema del lavoro emerge anche qui come una questione un po' più sfaccettata di quanto non pensassimo e caratterizzata da alcune forzature. La linea di tendenza è che ognuno deve essere ora imprenditore di se stesso, ma questo modo di rapportarsi al mondo del lavoro potrebbe anche alimentare tensioni sociali che potrebbero originare, ad esempio, dai cinque milioni di lavoratori che rappresentano il mondo del sommerso.
Il problema del sommerso, tuttavia, anche per le peculiarità che presenta, non può risolversi con provvedimenti finalizzati a contenere il fenomeno quali i contratti di emersione che si limitano a dare un po' di soldi all'impresa sommersa. Innanzitutto occorre porre in rilievo che esiste una differenza fra l'attuale mondo del sommerso e quello che esisteva negli anni '60, quando alcuni distretti industriali italiani (quali Biella e Prato) sono nati da forme di economia sommersa - un termine inventato dal CENSIS nel 1971 - e di occupazione occulta. In quegli anni vi era un sommerso a livello imprenditoriale, nel senso che, ad esempio, l'operaio Fiat licenziato si metteva in proprio e cominciava a produrre i pezzi per la Fiat prima nel sottoscala e riuscendo poi man mano a costruire una vera e propria impresa. Oggi, invece, le imprese sommerse sono sostanzialmente di due tipi: il primo tipo è il sommerso di "tipo campano", che ritengo pericoloso perché sostanzialmente espressione di nuclei familiari che producono pezzi dei prodotti più vari (dalle cravatte alle tomaie) e di commercianti, che operano come veri e propri "capibastone" occupandosi di raccogliere queste merci. Abbiamo quindi una sostanziale dispersione di queste imprese sul territorio con un organizzatore che mette insieme i vari pezzi, li raccoglie e li fa arrivare anche al Nord, dove viene applicato il marchio. In questo caso è difficile pensare ad una evoluzione positiva perché non si crea la figura dell'imprenditore, ma si rimane artigiani che lavorano in proprio e che non hanno nessun controllo sul processo produttivo e nessuna integrazione fra di loro; anche chi gira col camioncino per ritirare i pezzi, del resto, non ha la possibilità di far evolvere la propria attività in un sistema imprenditoriale. L'impresa nella cascina di Vigevano partiva comprando tre macchine in grado di produrre le scarpe, e quindi poteva ingrandirsi, ma un'azienda che fa pezzi che non sa neanche come vengono impiegati non evolve da nessuna parte. Si tratta di un sommerso perso, di un sommerso da Terzo mondo: la grande marca invece di produrre in Albania od in Corea produce a Caivano.
Il secondo tipo di sommerso è quello pugliese, che assomiglia a quello degli anni '70 perché si sostanzia nell'impresa a rete, disposta meglio sul territorio e già concentrata in alcune aree. Alcune di queste imprese fanno gli abiti da sposa, altre fanno le cravatte, eccetera. Si tratta di piccole imprese che magari nascono nel giardino di casa, impiegando come operaie ragazzine di 15-16 anni che guadagnano 600.000 lire al mese, e che poi gradatamente crescono. Nell'indagine che noi abbiamo fatto, questi famosi contratti di emersione hanno funzionato in maniera negativa. Un'impresa di buone dimensioni è emersa facendo dimettere i suoi operai, praticamente denunciati come lavoratori sommersi, gli stessi operai sono stati riassunti ottenendo sgravi fiscali molto rilevanti. Alcune imprese sono emerse prescindendo dai contratti di emersione, sono emerse nel momento in cui hanno trovato un mercato, fra i casi che conosco quello di un consorzio di imprese che ha creato un marchio e con questo marchio di segmento medio-basso ha trovato un filone di esportazione verso l'Est. Quindi è il mercato che ha guidato l'emersione dell'azienda ed il mercato è stato molto più funzionale di ogni provvedimento, della paura dell'ispettore dell'INPS o dell'Ufficio del Lavoro. Certamente le imprese emergono anche per evitare multe in quanto la paura di essere scoperti c'è ed è forte anche se queste aziende si basano sul consenso sociale. Infatti l'imprenditore sommerso non è affatto ritenuto uno schiavista che sfrutta i suoi dipendenti, bensì esiste una compenetrazione di interessi fra le due parti perché all'operaio non interessano i contributi sociali se percepisce una paga maggiore: 1.500.000 di lire in nero sono per alcuni molto meglio di un 1.000.000 con i contributi.
Un ultimo fattore di insicurezza per noi italiani deriva sostanzialmente dalla piccola criminalità e dall'immigrazione. Due fattori che, pur se spesso non considerati nelle loro reali proporzioni, vanno comunque considerati come fattori veri. Sono dell'opinione, più volte ribadita in passato, che l'allarme sociale non corrisponda ai numeri; oggi purtroppo ce lo diciamo fra addetti ai lavori perché altrimenti creiamo un altro allarme sociale.
I numeri possono essere eloquenti perché abbiamo avuto una crescita dell'indice di criminalità, intendendo come indice di criminalità i delitti denunciati dall'Autorità Giudiziaria. In ogni caso anche in questo settore occorre fare molta attenzione al dato statistico perché spesso si tratta di statistiche vecchie e poco attendibili così come possono essere poco attendibili anche i dati forniti dal comparto giudiziario. Il tasso di delittuosità in Italia è diverso da quello di cui dà conto il Procuratore Generale all'inizio dell'Anno Giudiziario, che si riferisce ai delitti per cui è iniziata l'azione penale e quindi anche ai delitti non denunciati per i quali la Procura ha aperto un fascicolo autonomamente. Comunque i delitti per i quali l'Autorità Giudiziaria ha aperto un fascicolo sono aumentati fino al '91, arrivando a 2.600.000 reati denunciati (gran parte dei quali sono furti); dal '92 al '94 c'è stata una rilevante diminuzione: da due milioni e 600.000 si è passati a due milioni e 200.000. La situazione si presentava stazionaria nel ‘95-'96 ed è rimasta stabile sino al '98 quando si è registrato aumento, da 2.200.000 a 2.400.000.
Premesso che non ritengo che in Italia ci debba essere un allarme particolare, è importante tuttavia ragionare sui numeri. Rispetto ai primi anni '90 sono aumentate in maniera significativa soprattutto le rapine, che nel '98 sono aumentate del 12,5%. Si registra un numero rilevante di furti in appartamento, questo reato ha un andamento crescente e, a partire dal '93, mostra una continuità di aumento preoccupante. Evidentemente il senso di insicurezza dei cittadini deriva dall'andamento della criminalità ma, a mio parere, è correlato anche all'offerta di sicurezza. Intendo per offerta di sicurezza un'offerta istituzionale in senso globale, cui contribuiscono non solo le Forze di polizia deputate al controllo del territorio ma anche il sistema giudiziario.
Se si esamina perché ci si sente insicuri si trova che spesso a chi fa una denuncia gli viene detto che fare la denuncia non serve a niente. Il sistema giudiziario è una sorta di lotteria nella quale può andare bene o male, dipende dal giudice; due reati uguali vengono giudicati in maniera diversa.
La terza ragione di insicurezza deriva dai luoghi di integrazione sociale, perché se ognuno si sente un singolo ha più paura ed insicurezza. Sottolineo che il passaggio da una società protetta ad una società più insicura è concomitante con il delicato passaggio verso una società multietnica e pertanto siamo portati ad attribuire l'incremento di pericolosità nella nostra vita quotidiana al fatto che ci sono immigrati extracomunitari.
In Italia ci sono 1.041.000 immigrati che vengono da regioni povere, a cui dobbiamo aggiungere i clandestini, circa 250.000, per arrivare ad un numero che si attesta intorno ad 1.300.000. Spesso tuttavia si tende ad esagerare: così come non siamo un Paese ad alto tasso di delittuosità, non possiamo considerarci un Paese di immigrazione soprattutto se si considera che il tasso di immigrazione italiano (2,1%) è la metà di quello medio dei Paesi europei (4,6%). Anche qui il dato va interpretato perché approfondendo si nota che vi sono alcune concentrazioni territoriali che evidenziano come il 53% di tutti gli immigrati si collochi in 9-10 grandi province. La città che ha il maggior tasso di immigrazione è Trieste per evidenti rapporti di frontiera.
In base a tutte le indagini compiute questo mondo dell'immigrazione risulterebbe meno pericoloso di quanto non sembri. In proposito il CENSIS ha compiuto un'indagine, convalidata anche dal Ministero degli Interni, che tendeva ad accertare, presso gli immigrati che chiedevano la regolarizzazione del soggiorno, il tipo di lavoro esercitato al momento della domanda. Dalle dichiarazioni degli immigrati, che peraltro potrebbero non corrispondere a verità, è risultato che l'86% dei 300.000 alla ricerca della regolarizzazione ha un lavoro destrutturato. I vecchi "cicli immigratori", ad esempio quello dei meridionali che andavano a Torino per occuparsi alla Mirafiori, si concludevano con il posto di lavoro fisso dove l'operaio trovava una socializzazione ed un controllo; le abitazioni si trovavano nel ghetto delle case popolari, ma anche lì c'era un controllo sociale. Il lavoro è oggi invece più flessibile, più destrutturato: gli immigrati sono per lo più impiegati in lavori domestici, nella ristorazione, nell'edilizia e nel lavoro ambulante ed una modesta percentuale lavora nell'industria. Fare l'ambulante od il cuoco in un ristorante non significa vivere in modo ambiguo tuttavia vuol dire vivere una vita non socializzata, una vita destrutturata. Questo è il centro del problema considerato anche che il 47% degli irregolari sono coniugati (il 5% sono coniugati con gli italiani) ed hanno il grande problema della casa. Un dato veramente singolare indica che il 3% di questi irregolari sono proprietari della casa dove abitano.
Un immigrato clandestino è certamente un delinquente potenziale, diciamolo francamente, perché è un incensurato e nel contempo è uno che non esiste, che non ha un nome e che spesso svolge un lavoro marginale.
La gran parte degli immigrati, anche clandestini, sono gente che lavora, si è sposata e cerca un'occupazione stabile però è altrettanto vero che nel '96 il 26% degli ingressi in carcere sono costituiti da immigrati, nel '98 siamo passati al 49%, ovvero si è raggiunto il limite che la metà degli ingressi in carcere è composta da stranieri. Se dal '90 al '97 siamo passati da 12.000 denunciati a 45.000 immigrati denunciati, il dato ci dice che se da un lato non si può criminalizzare l'immigrazione, d'altra parte questo tipo di questione esiste ed è spesso collegata al traffico di clandestini recentemente accentuatasi per la guerra.
In conclusione richiamo solo tre punti: tensioni sociali per effetti ridistributivi, tensioni sociali per scomposizione delle forme di lavoro, tensioni sociali per una insicurezza personale che deriva da questo mix fra criminalità di strada, criminalità organizzata e mondo dell'immigrazione.sa misura. L'Italia, dunque, per i prossimi 20 anni dovrebbe crescere del 5% all'anno, cosa assai improbabile posto che riteniamo già di essere fortunati questo anno con una previsione di crescita del Pil dell'1,2-1,3%.
Sullo sfondo di questo scenario vedo una "bomba finanziaria" che ha le stesse dimensioni di quella che già si intravedeva negli anni '80, quando nessuno si era accorto che si stava accumulando un debito pubblico che oggi è il 120% del Pil. La differenza tra ieri e oggi è che negli anni '80 non avevamo un debito pubblico come quello attuale che, malgrado sia obiettivamente stato ridotto e contenuto dalle manovre finanziarie, è veramente ingente.
Se le pensioni sottrarranno sino a questo punto le risorse, le giovani generazioni, inserite in famiglie già sotto stress e costrette a sostenere un peso enorme per questioni sociali di cui la collettività dovrebbe molto più farsi carico, avranno grosse difficoltà di inserimento nella società. I giovani inoltre si trovano penalizzati da un sistema universitario che si dimostra poco produttivo in quanto il ciclo di studi si conclude quando lo studente ha 27-28 anni, mentre in altri Paesi, quali la Francia, la Spagna ed il Regno Unito, gli studi vengono conclusi fra i 21 ed i 23 anni. Ne consegue che il 68% dei giovani italiani con meno di 30 anni vive alle spalle della famiglia. Una famiglia decide di non avere figli proprio perché deve pensare che praticamente non avrà mai pace: quando si è giovani si deve pensare alla pensione, poi si deve pensare ai figli, fino ai loro 30 anni ed a questo punto ci si deve occupare dei genitori. Questa generazione, che noi abbiamo definito "generazione sandwich", non riesce a capire quando è il suo turno di godersi la propria vita.
Oggi 500.000 famiglie italiane hanno il problema di avere un parente con l'Alzheimer, una malattia invalidante che rappresenta solo una parte del problema handicap, con tutte le conseguenze soprattutto a carattere finanziario che tali realtà comportano per le famiglie. Attualmente la vera povertà è frutto di realtà come questa e perciò non sono d'accordo con chi parla di poveri/ricchi: oggi si può guadagnare anche 5 milioni di lire al mese, ma se si ha un genitore disabile si pongono problemi di enorme spessore.
Come già detto il 71% della spesa sociale riguarda le pensioni, questo certamente comporta un benefico effetto per quanto riguarda il circuito dei consumi perché i pensionati fanno la loro parte come consumatori, ciononostante non riesco a comprendere le battaglie sull'indicizzazione delle pensioni medio-alte. Penso inoltre che il mondo pensionistico vada urgentemente riordinato anche perché all'interno del settore esistono forti sperequazioni con pensionati, che magari hanno lavorato 15 anni, che percepiscono una miseria ogni mese, ed altri che, non riesco a capire il perché, percepiscono super pensioni.
Come prima conclusione ritengo quindi che le pensioni sociali derivino da una cattiva politica ridistributiva che in questo momento si pone a fronte di una crescente e sempre maggiore tensione competitiva.
Il secondo punto da considerare è quello del settore del lavoro che pone preoccupazioni di varia natura, molto meno banali dell'equazione "disoccupazione = possibile crisi dell'ordine pubblico". Il vero problema è da ricercarsi nell'esistenza di un tasso di disoccupazione molto alto, tuttavia è importante accertare se si tratti di un dato reale. Le pubblicazioni ISTAT parlano giustamente di un tasso di disoccupazione che raggiunge il 12,1% delle forze di lavoro; ma ove esaminiamo il dato dal punto di vista dei possibili fattori di tensione sociale è chiaro che non possiamo prescindere dal distinguere fra situazioni diverse. Ad esempio una cosa è un giovane disoccupato che vive in casa ed una cosa è un disoccupato che è anche un capofamiglia: nel primo caso affrontiamo un problema sociale, nell'altro un caso disperato. Il protagonista del primo potrebbe addirittura essere un tipo che si approfitta della situazione crogiolandosi nell'essere "coperto" dai genitori, mentre il secondo potrebbe finire per compiere un omicidio per la camorra in cambio di 1 milione al mese.
Da questo punto di vista il 15% delle famiglie italiane, ossia 3 milioni e 200.000 famiglie, dichiara di avere un problema di lavoro; ci sono 2 milioni e 600.000 disoccupati, ma 3 milioni e 200.000 famiglie dichiarano di avere un forte problema di lavoro. La metà circa, 1 milione 400.000 famiglie italiane, ha un problema di lavoro perché c'è un componente, generalmente il coniuge od il figlio, che ha un problema di lavoro. Il dato esprime una situazione più drammatica se si considera il fatto che gli esclusi dal lavoro si concentrano nel Mezzogiorno e che si tratta soprattutto di giovani e donne, anche se per questo gruppo la famiglia può fungere da ammortizzatore sociale.
L'altro milione e mezzo circa di famiglie si può suddividere in tre sottogruppi. Il primo conta 700.000 nuclei familiari nell'ambito dei quali nessuno lavora e dove l'unico reddito è spesso rappresentato da una pensione: a mio parere queste famiglie a rischio di disperazione che hanno un reddito inferiore al milione al mese, per lo più un reddito di assistenza di varia natura, costituiscono una bomba. Nel secondo sottogruppo si possono collocare 450.000 famiglie che hanno un componente che sostanzialmente è occupato nel sommerso. Nel terzo sottogruppo si collocano 650.000 famiglie numerose, all'interno delle quali vi è un solo componente che lavora in modo sicuro ma il cui salario risulta comunque insufficiente a garantire il reddito della famiglia. Questa categoria non compare nelle statistiche perché il capofamiglia non è un disoccupato, anche se la famiglia ha un problema serio di lavoro, in quanto la moglie non lavora, ci sono più figli e lo stipendio percepito, per esempio di impiegato comunale, si aggira intorno a 1.600.000 lire al mese.
Per quanto concerne il lavoro, una chiave di lettura che credo nuova, forse mai portata all'attenzione, è che oggi sta fortemente crescendo e diventando sempre più aderente alla realtà il concetto di occupazione flessibile o precaria.
Naturalmente esiste nel settore una grande diversità di comportamento. In Italia abbiamo delle famiglie ricchissime, nelle quali lavorano tre o quattro persone, le cosiddette famiglie multi-lavoro, nelle quali il reddito si concentra. Molti anni fa le abbiamo chiamate "famiglie S.p.A." perché sono come un'impresa. In Emilia Romagna, la prima Regione sotto questo punto di vista, il 61% delle famiglie ha più di due componenti che lavorano, nelle Marche il valore scende al 54%, per arrivare al 51% nel Trentino Alto Adige. Non è il mitico Nord-Est, né la tradizionale Lombardia: le Regioni dove la struttura familiare e la struttura lavoro sono maggiormente concentrate sono appunto Emilia, Marche e Trentino Alto Adige. La media italiana si attesta intorno al 44%, un valore abbastanza alto se si considera che le tre Regioni dove si registra il minor numero di famiglie di questo tipo sono la Calabria, la Campania e la Sicilia.
Il dato prende in considerazione naturalmente i lavori regolari, tuttavia non bisogna dimenticare che qui si è in presenza di due fattori fondamentali, il primo dei quali è l'aumento straordinario del lavoro sommerso riguardo al quale si è passati nell'arco di tre anni (dal '96 al '99) da 3.800.000 lavoratori sommersi a 5.300.000. Questo valore, chiaramente, deriva da una stima che abbiamo ripetuto con la stessa metodologia negli anni: può darsi che i numeri esatti non siano quelli indicati ma l'aumento tendenziale è sicuramente reale.
Il sommerso è presente molto più nei servizi che nell'industria; certamente le industrie dell'abbigliamento e della calzatura portano con sé una forte area di lavoro sommerso, ma il grosso del sommerso è presente nei servizi domestici, nei pubblici esercizi, nell'edilizia, ecc. Nel lavoro sono presenti tanti mondi e, per esempio, una parte di questi lavoratori sommersi sono casalinghe, donne che lavorano in vario modo e sono considerate fuori dalle forze lavoro, non solo non compaiono nel tasso di disoccupazione ma non compaiono neanche nel tasso di attività. Questi lavoratori del sommerso sono all'incirca un milione ma, anche qualora uscissero allo scoperto, non potrebbero far scendere il tasso di disoccupazione, perché si tratta di occupati in lavori per lo più temporanei.
Si tratta di un mondo abbastanza magmatico: se nel Mezzogiorno ci fosse realmente un tasso del 20% di completa disoccupazione ci sarebbero seri problemi di stabilità sociale, mentre con un buon margine di approssimazione il tasso reale dovrebbe attestarsi intorno al 10-11%. Tuttavia questa "riduzione" non può farci affermare che questa gente stia bene, che sia garantita, che guadagni tanto. Questa gente guadagna non più di 800.000/1.000.000 di lire al mese e non si vuole spostare al Nord dove forse potrebbe trovare un lavoro meglio retribuito ma con un costo della vita sicuramente superiore. In definitiva è per loro più conveniente guadagnare 800.000 lire in nero.
In tal senso non reputo irrazionale che la gente del Sud non voglia trasferirsi al Nord e, d'altronde, non è neppure conveniente attrarre forze lavoro ed alzare i costi di produzione di imprese come quelle, per lo più piccole e medie, che si trovano nel Settentrione del Paese, che si caratterizzano per una produttività relativamente bassa e quindi si trovano nell'impossibilità di alzare il costo del lavoro più di tanto.
Possono sembrare considerazioni semplicistiche, ma anche teorie che io ritengo di una certa utilità partono poi da evidenze relativamente banali. Nel corso di un Convegno sull'impatto dell'EURO, uno dei più grossi professori di analisi finanziaria americani ha fatto un'analisi sulla debolezza dell'EURO rispetto al dollaro partendo da un principio semplice. In sostanza egli ha spiegato che un messicano per comprare yen oggi compra prima dollari e poi li converte in yen perché ritiene più conveniente pagare due commissioni piuttosto che il cambio diretto pesos-yen ed ha concluso che quando l'EURO diventerà così allora sarà veramente una Moneta Unica.
La seconda questione da esaminare è connessa ad un aumento delle forme di flessibilità del lavoro: i lavoratori autonomi, quali artigiani, commercianti eccetera, sono oggi decisamente aumentati e costituiscono il 25% degli occupati a fronte di una media europea del 15%. Relativamente basse sono invece tutte quelle forme di flessibilità del lavoro quale il tempo parziale (part-time), dove il 6,6% di lavoratori italiani si confronta al 16,4% della media europea, un dato quasi tre volte superiore. I lavoratori a tempo determinato sono invece il 7,5 % in Italia contro il 12% di media europea.
Il tema del lavoro emerge anche qui come una questione un po' più sfaccettata di quanto non pensassimo e caratterizzata da alcune forzature. La linea di tendenza è che ognuno deve essere ora imprenditore di se stesso, ma questo modo di rapportarsi al mondo del lavoro potrebbe anche alimentare tensioni sociali che potrebbero originare, ad esempio, dai cinque milioni di lavoratori che rappresentano il mondo del sommerso.
Il problema del sommerso, tuttavia, anche per le peculiarità che presenta, non può risolversi con provvedimenti finalizzati a contenere il fenomeno quali i contratti di emersione che si limitano a dare un po' di soldi all'impresa sommersa. Innanzitutto occorre porre in rilievo che esiste una differenza fra l'attuale mondo del sommerso e quello che esisteva negli anni '60, quando alcuni distretti industriali italiani (quali Biella e Prato) sono nati da forme di economia sommersa - un termine inventato dal CENSIS nel 1971 - e di occupazione occulta. In quegli anni vi era un sommerso a livello imprenditoriale, nel senso che, ad esempio, l'operaio Fiat licenziato si metteva in proprio e cominciava a produrre i pezzi per la Fiat prima nel sottoscala e riuscendo poi man mano a costruire una vera e propria impresa. Oggi, invece, le imprese sommerse sono sostanzialmente di due tipi: il primo tipo è il sommerso di "tipo campano", che ritengo pericoloso perché sostanzialmente espressione di nuclei familiari che producono pezzi dei prodotti più vari (dalle cravatte alle tomaie) e di commercianti, che operano come veri e propri "capibastone" occupandosi di raccogliere queste merci. Abbiamo quindi una sostanziale dispersione di queste imprese sul territorio con un organizzatore che mette insieme i vari pezzi, li raccoglie e li fa arrivare anche al Nord, dove viene applicato il marchio. In questo caso è difficile pensare ad una evoluzione positiva perché non si crea la figura dell'imprenditore, ma si rimane artigiani che lavorano in proprio e che non hanno nessun controllo sul processo produttivo e nessuna integrazione fra di loro; anche chi gira col camioncino per ritirare i pezzi, del resto, non ha la possibilità di far evolvere la propria attività in un sistema imprenditoriale. L'impresa nella cascina di Vigevano partiva comprando tre macchine in grado di produrre le scarpe, e quindi poteva ingrandirsi, ma un'azienda che fa pezzi che non sa neanche come vengono impiegati non evolve da nessuna parte. Si tratta di un sommerso perso, di un sommerso da Terzo mondo: la grande marca invece di produrre in Albania od in Corea produce a Caivano.
Il secondo tipo di sommerso è quello pugliese, che assomiglia a quello degli anni '70 perché si sostanzia nell'impresa a rete, disposta meglio sul territorio e già concentrata in alcune aree. Alcune di queste imprese fanno gli abiti da sposa, altre fanno le cravatte, eccetera. Si tratta di piccole imprese che magari nascono nel giardino di casa, impiegando come operaie ragazzine di 15-16 anni che guadagnano 600.000 lire al mese, e che poi gradatamente crescono. Nell'indagine che noi abbiamo fatto, questi famosi contratti di emersione hanno funzionato in maniera negativa. Un'impresa di buone dimensioni è emersa facendo dimettere i suoi operai, praticamente denunciati come lavoratori sommersi, gli stessi operai sono stati riassunti ottenendo sgravi fiscali molto rilevanti. Alcune imprese sono emerse prescindendo dai contratti di emersione, sono emerse nel momento in cui hanno trovato un mercato, fra i casi che conosco quello di un consorzio di imprese che ha creato un marchio e con questo marchio di segmento medio-basso ha trovato un filone di esportazione verso l'Est. Quindi è il mercato che ha guidato l'emersione dell'azienda ed il mercato è stato molto più funzionale di ogni provvedimento, della paura dell'ispettore dell'INPS o dell'Ufficio del Lavoro. Certamente le imprese emergono anche per evitare multe in quanto la paura di essere scoperti c'è ed è forte anche se queste aziende si basano sul consenso sociale. Infatti l'imprenditore sommerso non è affatto ritenuto uno schiavista che sfrutta i suoi dipendenti, bensì esiste una compenetrazione di interessi fra le due parti perché all'operaio non interessano i contributi sociali se percepisce una paga maggiore: 1.500.000 di lire in nero sono per alcuni molto meglio di un 1.000.000 con i contributi.
Un ultimo fattore di insicurezza per noi italiani deriva sostanzialmente dalla piccola criminalità e dall'immigrazione. Due fattori che, pur se spesso non considerati nelle loro reali proporzioni, vanno comunque considerati come fattori veri. Sono dell'opinione, più volte ribadita in passato, che l'allarme sociale non corrisponda ai numeri; oggi purtroppo ce lo diciamo fra addetti ai lavori perché altrimenti creiamo un altro allarme sociale.
I numeri possono essere eloquenti perché abbiamo avuto una crescita dell'indice di criminalità, intendendo come indice di criminalità i delitti denunciati dall'Autorità Giudiziaria. In ogni caso anche in questo settore occorre fare molta attenzione al dato statistico perché spesso si tratta di statistiche vecchie e poco attendibili così come possono essere poco attendibili anche i dati forniti dal comparto giudiziario. Il tasso di delittuosità in Italia è diverso da quello di cui dà conto il Procuratore Generale all'inizio dell'Anno Giudiziario, che si riferisce ai delitti per cui è iniziata l'azione penale e quindi anche ai delitti non denunciati per i quali la Procura ha aperto un fascicolo autonomamente. Comunque i delitti per i quali l'Autorità Giudiziaria ha aperto un fascicolo sono aumentati fino al '91, arrivando a 2.600.000 reati denunciati (gran parte dei quali sono furti); dal '92 al '94 c'è stata una rilevante diminuzione: da due milioni e 600.000 si è passati a due milioni e 200.000. La situazione si presentava stazionaria nel ‘95-'96 ed è rimasta stabile sino al '98 quando si è registrato aumento, da 2.200.000 a 2.400.000.
Premesso che non ritengo che in Italia ci debba essere un allarme particolare, è importante tuttavia ragionare sui numeri. Rispetto ai primi anni '90 sono aumentate in maniera significativa soprattutto le rapine, che nel '98 sono aumentate del 12,5%. Si registra un numero rilevante di furti in appartamento, questo reato ha un andamento crescente e, a partire dal '93, mostra una continuità di aumento preoccupante. Evidentemente il senso di insicurezza dei cittadini deriva dall'andamento della criminalità ma, a mio parere, è correlato anche all'offerta di sicurezza. Intendo per offerta di sicurezza un'offerta istituzionale in senso globale, cui contribuiscono non solo le Forze di polizia deputate al controllo del territorio ma anche il sistema giudiziario.
Se si esamina perché ci si sente insicuri si trova che spesso a chi fa una denuncia gli viene detto che fare la denuncia non serve a niente. Il sistema giudiziario è una sorta di lotteria nella quale può andare bene o male, dipende dal giudice; due reati uguali vengono giudicati in maniera diversa.
La terza ragione di insicurezza deriva dai luoghi di integrazione sociale, perché se ognuno si sente un singolo ha più paura ed insicurezza. Sottolineo che il passaggio da una società protetta ad una società più insicura è concomitante con il delicato passaggio verso una società multietnica e pertanto siamo portati ad attribuire l'incremento di pericolosità nella nostra vita quotidiana al fatto che ci sono immigrati extracomunitari.
In Italia ci sono 1.041.000 immigrati che vengono da regioni povere, a cui dobbiamo aggiungere i clandestini, circa 250.000, per arrivare ad un numero che si attesta intorno ad 1.300.000. Spesso tuttavia si tende ad esagerare: così come non siamo un Paese ad alto tasso di delittuosità, non possiamo considerarci un Paese di immigrazione soprattutto se si considera che il tasso di immigrazione italiano (2,1%) è la metà di quello medio dei Paesi europei (4,6%). Anche qui il dato va interpretato perché approfondendo si nota che vi sono alcune concentrazioni territoriali che evidenziano come il 53% di tutti gli immigrati si collochi in 9-10 grandi province. La città che ha il maggior tasso di immigrazione è Trieste per evidenti rapporti di frontiera.
In base a tutte le indagini compiute questo mondo dell'immigrazione risulterebbe meno pericoloso di quanto non sembri. In proposito il CENSIS ha compiuto un'indagine, convalidata anche dal Ministero degli Interni, che tendeva ad accertare, presso gli immigrati che chiedevano la regolarizzazione del soggiorno, il tipo di lavoro esercitato al momento della domanda. Dalle dichiarazioni degli immigrati, che peraltro potrebbero non corrispondere a verità, è risultato che l'86% dei 300.000 alla ricerca della regolarizzazione ha un lavoro destrutturato. I vecchi "cicli immigratori", ad esempio quello dei meridionali che andavano a Torino per occuparsi alla Mirafiori, si concludevano con il posto di lavoro fisso dove l'operaio trovava una socializzazione ed un controllo; le abitazioni si trovavano nel ghetto delle case popolari, ma anche lì c'era un controllo sociale. Il lavoro è oggi invece più flessibile, più destrutturato: gli immigrati sono per lo più impiegati in lavori domestici, nella ristorazione, nell'edilizia e nel lavoro ambulante ed una modesta percentuale lavora nell'industria. Fare l'ambulante od il cuoco in un ristorante non significa vivere in modo ambiguo tuttavia vuol dire vivere una vita non socializzata, una vita destrutturata. Questo è il centro del problema considerato anche che il 47% degli irregolari sono coniugati (il 5% sono coniugati con gli italiani) ed hanno il grande problema della casa. Un dato veramente singolare indica che il 3% di questi irregolari sono proprietari della casa dove abitano.
Un immigrato clandestino è certamente un delinquente potenziale, diciamolo francamente, perché è un incensurato e nel contempo è uno che non esiste, che non ha un nome e che spesso svolge un lavoro marginale.
La gran parte degli immigrati, anche clandestini, sono gente che lavora, si è sposata e cerca un'occupazione stabile però è altrettanto vero che nel '96 il 26% degli ingressi in carcere sono costituiti da immigrati, nel '98 siamo passati al 49%, ovvero si è raggiunto il limite che la metà degli ingressi in carcere è composta da stranieri. Se dal '90 al '97 siamo passati da 12.000 denunciati a 45.000 immigrati denunciati, il dato ci dice che se da un lato non si può criminalizzare l'immigrazione, d'altra parte questo tipo di questione esiste ed è spesso collegata al traffico di clandestini recentemente accentuatasi per la guerra.
In conclusione richiamo solo tre punti: tensioni sociali per effetti ridistributivi, tensioni sociali per scomposizione delle forme di lavoro, tensioni sociali per una insicurezza personale che deriva da questo mix fra criminalità di strada, criminalità organizzata e mondo dell'immigrazione.


(*) Nota introduttiva a cura della Redazione.

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